Willow - FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019
«L’ultima luna/la vide solo un bimbo appena nato/aveva occhi tondi e neri e fondi/e non piangeva/con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani e volò via/era l’uomo di domani».
I figli sono simboli. Così carichi, nell’immaginario umano, di desiderio, aspettative, scommesse sul futuro degli individui che li attendono, che le pratiche per la loro venuta, qualunque natura esse abbiano, non possono non prendere le fattezze di esperimenti a altissimo rischio di stress fisico e emotivo.
E non è questione solo contemporanea di crisi demografiche e crescenti tassi di infertilità dei paesi ricchi, legati a cause di matrice socio-politico-economico-ambientale di enorme di rilevanza e grande complessità.
Le narrazioni antiche in quasi tutte le culture - dal mito greco al racconto biblico, alla tradizione favolistica dell’est Europa, come quella a cui attinge il primo episodio dell’ultimo film di Milcho Manchevski, Willow - hanno sempre tramandato storie di coppie, in genere di nobile origine, che non riuscendo a avere un erede, e in preda a una strana follia, antenata di ciò che oggi chiamiamo depressione, scendono a patti con l’irrazionale, appropriandosi del figlio di qualcun’altro, promettendo l’indicibile a chi sa illuderli meglio che la soluzione del problema sia fuori da loro stessi.
Non sembra nobile e ricca tuttavia la coppia protagonista del primo episodio di questo trittico del salice piangente (come lacrimoso sarà il mood di tutto il film) e della pietra sul petto, simbolo nella cultura macedone dell’impossibilità di avere figli.
Qui la ricchezza dei due protagonisti è legata alla giovinezza, alla bellezza e alla forza.
Valori positivi che portano i due giovani dritti nella mani nodose e livide d’invidia di una sorta di strega che, per aver provato a lungo la durezza della vita, si è a sua volta inaridita e ha imparato a giocare con la mente e con il corpo nelle forme di un panismo avvelenato da una visione punitiva dell’esistenza, della sessualità e del godimento di matrice religiosa. Agli occhi della vecchia megera, l’ingrata aspirazione dei due giovani al completamento, che rappresenterebbe per loro la nascita di un figlio, a lei sempre negato, appare una fortuna immeritata, sulla quale accampare pretese oscene, che saranno tuttavia, in prima istanza, accolte dalla coppia.
Il figlio arriverà, come la richiesta dell’esorbitante pagamento pattuito, tardiva eppure inesorabile. E alla casualità degli eventi naturali seguirà il tempo delle scelte fatali.
Il destino nel nome. Nella visione ciclica di un eterno ritorno, tanto amata dal regista Premio Oscar per Prima della pioggia, il nome del protagonista del secondo episodio, Kuzmanovski, il marito di Rodna, esplicita il legame genealogico con la prima coppia infelice (Kuzman il nome del figlio).
Ma le condizioni materiali al contorno, dal medioevo a oggi, sembrano cambiate. O forse no.
La fatica disumana nel lavoro domestico e nei campi, equamente ripartita tra uomini e donne, ha lasciato il posto alla mortificazione dell’individuo nel precariato esistenziale, sociale e lavorativo dell’usurante quotidiano contemporaneo. L’incertezza del futuro si avvita, anche per la gioiosa coppia del secondo episodio, su un destino di infertilità.
L’irrazionale di allora oggi ha il volto della scienza. Una scienza costosa, proibitiva, dolorosa e indifferente eppure capace di ciò che nel medioevo avrebbero definito un miracolo. Innesco meccanico di processi naturali che scelgono poi la propria strada in maniera ancora purtroppo imperscrutabile, ma monitorabile. E qui il regista gioca la carta più ardua di un film in cui mostra grande padronanza del trip cinematografico e immutato interesse per i tormenti umani dagli echi ancestrali, legati al sangue quanto alla libertà di autodeterminazione dell’individuo.
Nella messa in scena del compimento di una scelta di fronte alla possibilità di abortire, Manchevski tratteggia un confronto tra pareri discordanti che porta a un’azione osservata al cospetto diretto e al di là delle conseguenze immediate e poi, collateralmente, nella prospettiva del futuro e complessiva.
Ma è nel terzo episodio che il film prende definitivamente quota. E non tanto per il meccanismo di disvelamento degli intrecci sottostanti alle storie narrate, attraverso spie visuali e di ribaltamento della prospettiva delle scene.
E’ nella vicenda della sorella di Rodna – Katerina – e del suo rapporto con il bambino adottato che comincia a sciogliersi infine il grumo di dolore, reale o immaginario, accumulato negli episodi precedenti. L’amore bloccato in una prospettiva del qui e dell’ora, in un simbolismo che imprigiona, nell’impossibilità di arrendersi all’evidenza della natura, accetta infine di seguire altri percorsi, diversi, forse altrettanto possibili quando alla catena del sangue si affianca la logica della parola, il rischio della parola. E’ attraverso il mutismo del bambino, che dall’orfanotrofio arriva in una casa estranea piena di un sentimento presente ma congelato, che passa la liberazione del simbolo. Figli simboli in tutte le culture, che non hanno scampo di sopravvivenza e di felicità reale se non nell’incontro e nel confronto tra le loro piccole, grandi condanne; simboli della sofferenza degli adulti, nel silenzio di una solitudine come nel caos di una rumorosa festa per la circoncisione. Figli la cui unica via di salvezza è guardarsi e riconoscersi come semplici bambini, il cui dolore prima o poi passerà.
(Willow); Regia: Milcho Manchevski; sceneggiatura: Milcho Manchevski; fotografia: Tamás Dobos; montaggio: Nicolas Gaster; musica: Kiril Dzajkovski; interpreti: Sara Klimoska, Natalija Teodosieva, Kamka Tocinovski, Nikola Risteski, Nenad Nacev, Petar Caranovic, Ratka Radmanovic, Petar Mircevsk; origine: Macedonia del Nord, Ungheria, Belgio, Albania, 2019’; durata: 101’