La pellicola di Michael Greenspan ha un arduo compito: tenere incollato lo spettatore nella quasi totale assenza di trama. Le prime sequenze sembrano essere un esercizio di stile esteticamente molto ben riuscito ma del tutto fine a se stesso. Introducono sì la condizione disperata del protagonista, ma predominano eccessivamente sull’economia globale del film che perde man mano di spessore narrativo. Le molteplici angolazioni della macchina da presa, il gioco di immagini riflesse e di soggettive ricompongono il puzzle che il misterioso uomo privo di memoria si trova a dover ricostruire in prima persona. La lenta guarigione testimoniata dal risanarsi dei suoi tratti somatici, sfigurati dopo un incidente la cui prova più evidente è il rottame d’automobile (set incotrastato per ben venti minuti), serve da passaggio alla successiva fase di acquisizione di consapevolezza: di ciò che lo circonda, del suo stato di salute, ma soprattutto di quello che è avvenuto in precedenza. E qui il thriller si inceppa, arrancando verso il finale a sorpresa almeno quanto l’emaciato Adrien Brody, perennemente incollato al terreno. Se Brody continua a esplorare il suo lato oscuro cimentandosi in un ruolo che richiede una recitazione estremamente fisica e raggiungendo risultati convincenti, il personaggio di per sé è male indagato. Il danno principale è tuttavia da attribuirsi al lacunoso apparato centrale che compromette un film che per alcuni aspetti poteva dimostrarsi interessante. A poco serve il colpo di scena, giunto tardivo e assolutamente non sorretto da un necessario clima di suspence.