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Wrong turn

Pubblicato il 18 agosto 2004 da Alessandro Izzi


Wrong turn

Ogni horror, si sa, è una vera e propria fiaba riletta secondo parametri e strutture narratologiche di volta in volta adeguati alle contingenze sociologiche contemporanee e al target di pubblico cui il film (o il libro) si rivolge. Da un punto di vista strettamente archetipico, quindi, non può e non deve in sostanza esserci sostanziale differenza tra la favola di Cappucetto Rosso e gli orrori di una saga come quella di Nightmare. Entrambi i modelli narrativi, infatti, si adoperano per esercitare una vera e propria azione catartica nei confronti delle paure che attanagliano in maniera inconscia la nostra stessa condizione di “esseri sociali”. Wrong Turn, e qui risiede essenzialmente tutto il motivo del suo fascino, applica con grande consapevolezza sia a livello di sceneggiatura che di regia un’equivalenza stretta tra i modelli narrativi della fiaba pura e semplice (di cui ripropone la linearità narrativa) e le paure più forti dell’uomo contemporaneo. Centro del discorso è quindi quella vera e propria angoscia collettiva che risiede nella contraddizione solo apparente tra le nostre più recenti ansie tecnologiche (che ci spingono verso un futuro incerto ed indefinibile) e la consapevolezza appena appena rimossa del nostro passato bestiale e abnormemente violento. Il motivo iniziale del film è, infatti, quello della “regressione” che si ripropone nella logica del bivio cara a favole come l’arcinota Cappuccetto Rosso. Come l’eroina della vecchia fiaba anche il protagonista del film, infatti, si trova a dover compiere un percorso obbligato. E come la bambina anche l’uomo si trova di fronte ad un bivio, ad una scelta tra una strada certa, ma decisamente più lunga (ed improponibile nei tempi iperaccelerati del mondo contemporaneo) ed una sconosciuta che si perde nei meandri di boschi selvaggi ed inesplorati in cui la civiltà cede il passo alla bestialità: vera e propria condizione rimossa del nostro essere uomini. La scelta obbligata verso l’ignoto compiuta dai protagonisti del film è, quindi, in realtà, prima di tutto l’imput iniziale che conduce ad un azzeramento del nostro orologio biologico ad un ritrovamento di una condizione pre umana che è ancora troppo vicina alla nostra condizione così detta civilizzata. In questa dimensione ambigua, persa tra le dimensione di un vero e proprio “Rimosso” psicologico che è anche, al tempo stesso, un rimosso razziale e culturale, risiede il primo motivo di fascino del film che viene sancito nel momento topico del vero e proprio incontro con l’“alterità” dei mostri che altro non sono se non uno specchio carroliano in cui vediamo riflessa, forse anche troppo chiaramente, la nostra stessa condizione. Fino a questo punto la pellicola dichiara apertamente la sua intenzione a voler costruire un vero e proprio “mito” archetipico che riaggiorna con motivi pseudoscientifici (esemplarmente espressi nella splendida sequenza titoli malamente manomessa dall’atroce edizione italiana) le vecchie figure degli orchi delle favole. Da questo punto di vista assume valore emblematico la sequenza del ritrovamento della casa dei mostri da parte degli ignari protagonisti (la più bella e compatta del film) laddove il mito di Hansel e Gretel rivive nella profonda consapevolezza della penetrazione goffa di un territorio inesplorato eppure familiare e dove l’azione vojeristica tipica del genere viene magnificata nell’immagine dell’occhio spalancato all’orrore dietro un buco della serratura e dove ritorna un motivo tipicamente infantile come il tentativo di fuga durante il sonno scomposto dell’orco/mostro. Ovviamente, nel giro speculare delle quattro coppie sperdute nei boschi, non mancano i sottotesti tipici del genere come l’azione castrante e punitiva dei mostri nei confronti degli istinti sessuali delle coppiette (la prima composta da Kevin Zegers e Lindy Booth soccombe immediatamente dopo aver consumato una sorta di rito sessuale che resta censurato nell’ellissi del racconto), ma sono solo brevi parentesi a chiudere il cuore pulsante della scena centrale nella casa. Peccato, allora, che consumatasi questa scena esemplare, al film non resti altro che una piatta risoluzione che riconduce il racconto nei lidi di un classico inseguimento al massacro che esaurisce troppo rapidamente i motivi di originalità del film. Non fosse stato per la seconda parte del film, alquanto goffa e risaputa, seppur ben girata, sarebbe stato davvero possibile gridare al capolavoro.

(Wrong Turn); regia: Rob Schmidt; sceneggiatura: Alan B. McElroy; fotografia: John Bartley; montaggio: Michael Ross; musica: Elia Cmiral; interpreti: Desmond Harrington, Eliza Dushku, Jeremy Sisto, Emmanuelle Chriqui, Lindy Booth, Kevin Zegers; produzione: Summit Entertainment, Stan Winston Productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2004

[agosto 2004]

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