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Yattaman - Il film

Pubblicato il 28 gennaio 2011 da Alessandro Izzi
VOTO:


Yattaman - Il film

Yattaman era un’istituzione dell’animazione nipponica.
Non un capolavoro, intendiamoci, ma una serie animata che aveva dalla sua un riuscito connubio di ironia ed erotismo. Una serie scanzonata e priva di quelle grandi pretese contenutistiche che potessero in qualche modo nobilitare il materiale di partenza. La sua molla principale era la ripetitività goliardica delle situazioni che erano identiche di puntata in puntata senza che il discorso narrativo soggiacesse ad un qualsiasi principio di evoluzione. I combattimenti tra robot (tra buoni un po’ ebeti e cattivi simpatiche canaglie) erano sostenuti da una logica che potremo quasi definire “rituale”: si ripetevano eternamente uguali nelle dinamiche e nello stesso ritmo di messa in scena.
Ogni puntata cominciava con il diabolico Trio Drombo che abbindolava i malcapitati abitanti della città con trovate commerciali strampalate ed ideate al solo, ovvio scopo di spillar quattrini. I soldi così raccattati erano utilizzati per costruire nuove mirabolanti macchine da guerra che servivano per viaggiare nelle perigliose missioni alla ricerca della pietra Dokrostone e per combattere contro i paladini della giustizia che erano due, eterni fidanzatini, gli Yattaman, appunto. Lo scontro finale era principiato da combattimenti corpo a corpo tra le due macchine guerresche (Yattacan, quasi un ossimoro in italiano o Yattaking e pochi altri, per i buoni, contro i mostri meccanici dei cattivi), poi lo scontro si spostava e a combattere erano piccoli robottini costruiti allo scopo nel ventre dei robot madre.
Combattimenti a tempo di marcia, divertita esibizione del meccanismo ed esito scontato erano gli ingredienti necessari del successo della serie.
Del resto lo stesso inizio di ogni puntata si prestava ad essere una sostanziosa presa in giro dei vari spot pubblicitari che pure riempivano le programmazioni televisive nipponiche. E non si può negare che il continuo ammiccamento verso il pubblico, le strizzatine d’occhio e i giochi giammai gratuiti erano una palestra d’espressione metareferenziale che trovava proprio nel contesto televisivo che ospitava la serie, la sua più concreta ragion d’essere. In fin dei conti Yattaman voleva essere una specie di anticorpo magico del virus catodico: prendeva in giro le aspettative del pubblico, apriva un dialogo con lo spettatore e ne criticava, in fondo, l’estrema passività.
L’estro visionario stava tutto nell’ideazione dei piccoli eserciti di robottini che si fronteggiavano, rievocazioni favolistiche di specie animali o vegetali, giocattoli combattenti, piccoli sfoghi della fantasia.
Takashi Miike sognava un film sugli Yattaman già da molto tempo. E ci ha impiegato, si mormora, tre anni, per chiudere questo. Cercava questo film non perché pensasse di poter elaborare, su queste basi e questi personaggi, qualcosa di nuovo, ma per poter restare nel solco di una solida realtà abbondantemente sperimentata.
Fare il film significava per lui estendere l’esperienza televisiva, tirarla come una molla su durate più lunghe e senza intervenire sulla sua grammatica e sui suoi principi estetici.
Il film, in fondo, è una puntata più lunga della serie televisiva o, se si preferisce, il risultato della somma di varie puntate montate una dopo l’altra fino a raggiungere le dimensioni del lungometraggio.
In altri frangenti questo costituirebbe il limite dell’operazione, ma qui, il principio fotocopia ingrandita è portato alle sue estreme conseguenze con tale lucidità d’intenti da diventare il suo pregio più vero, la sua motivazione poetica.
Il regista, novello bimbo, si diletta con la macchina cinema per impossessarsi di una maniera, per costruire un film ricalco che gioca sull’accumulo e l’esasperazione. Il passaggio dall’animazione al live action è funzionale a questa propensione al gigantismo. Il cinema, più grande del vero, è fabbrica dei sogni, ma fabbrica consapevole dei suoi ingranaggi, sempre pronta a duettare con lo spettatore in un gioco di rievocazioni sempre più fitto di echi.
Il passaggio al grande schermo della piccola grammatica, certo, ingenera nello spettatore un’impressione di ripetitività che, alla lunga, potrebbe stancare. Ma non è alla storia che pensa Takashi Miike, ma al prolungamento dell’esperienza, al gioco di ammiccamenti, al divertimento che traspare da ogni singola inquadratura. Se si guarda con simpatia l’esperienza vale la spesa. Si astenga chi cerca nel film qualcosa di più.


CAST & CREDITS

(Yatterman the Movie); Regia: Takashi Miike; sceneggiatura: Masashi Sogo; fotografia: Hideo Yamamoto; montaggio: Kenji Yamashita; musica: Ikuro Fujiwara, Masaaki Jinbo; interpreti: Shō Sakurai, Saki Fukuda, Kyōko Fukada, Kendô Kobayashi, Katsuhisa Namase; produzione: Nikkatsu; distribuzione: Officine UBU; origine: Giappone, 2009; durata: 111’


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