Zero Days

Recita Wikipedia: “In informatica si definisce zero-day qualsiasi vulnerabilità non pubblicamente nota e il programma detto exploit che sfrutta questa vulnerabilità per eseguire azioni non normalmente permesse nel sistema in questione. Vengono chiamati zero-day perché lo sviluppatore ha zero giorni per riparare la falla nel programma prima che qualcuno lo possa sfruttare”. Il lungo documentario americano Zero Days di Alex Gibney, presentato in concorso oggi, fa sembrare quasi obsolete le polemiche di Michael Moore sulle guerre perdute dagli USA. Il protagonista di buona parte del film è StuxNet, un cybervirus con cui l’intelligence americana al completo (CIA+NSA, con l’avallo di Bush prima e di Obama poi) e la Mossad israeliana riuscirono a bloccare completamente (ma temporaneamente) la centrale nucleare di Natanz, nella regione di Isfahan, la più importante centrale iraniana. Come succede per altri tipi di virus, il “ceppo” venne scoperto casualmente da un analista bielorusso, e da lì procurò molto lavoro, mesi e mesi, alle più importanti aziende di antivirus del mondo per riuscire a comprendere come diamine funzionasse. La vicenda, seppur in apparenza di dominio pubblico (anche qui: vedi la relativa voce di Wikipedia in 30 lingue), è ancora ammantata da una fitta coltre di mistero, molti intervistati all’inizio, durante e verso la fine del film, si nascondono dietro no comment, non posso parlare, top secret etc, quasi che la vulgata – Usa+Israele contro le centrifughe atomiche dell’Iran – non rappresenti a quasi dieci anni di distanza l’intera verità. Su questa vicenda, indagata con estrema dovizia di particolari e di implicazioni (fermi restando i limiti cognitivi di cui sopra), con un montaggio incalzante e tante, tantissime parole, si innesta, soprattutto nella seconda parte del film, un ragionamento più ampio che, auspice il giornalista David Sanger il primo che ebbe il coraggio di scriverci sopra in un medium ad amplissima diffusione come il “New York Times” e non in un “semplice” blog, pone domande di fondamentale importanza, da un lato, sull’esito politico a lunga gittata ovvero sul potenziale effetto boomerang di tale operazioni (nel caso specifico dell’Iran, da lì in avanti i governanti di Teheran diedero vita a un potenziamento dell’intelligence informatica non solo ai fini difensivi ma anche a fini offensivi e ripresero in grande stile ad arricchire l’uranio) e, dall’altro, sullo stato e sullo statuto della democrazia, in che misura cioè le potenze mondiali possano operare nel campo della cyberwar senza che l’opinione pubblica ne venga informata e senza che si apra una discussione complessiva sull’argomento, come giungere a una distensione, a una moratoria. La guerra informatica è, in fin dei conti, più da paragonarsi alla guerra atomica, contro cui per un trentennio almeno si è creata nel mondo una vibrante protesta da parte dell’opinione pubblica o allo spionaggio, di cui nessuno sa niente? Questioni, inutile dirlo, di enorme portata che allo spettatore/al cittadino fanno tremare le vene ai polsi; questioni, rispetto alle quali, persino le rivelazioni di WikiLeaks sembrano innocue; ci troviamo di fronte a scenari distopici, ma di una distopia tragicamente già approdata nell’oggi; e sembra difficile riuscire a rimettere indietro l’orologio della tecnologia.
Sul piano formale il documentario è abbastanza vecchio stile: talking heads a non finire (alcuni con voce contraffatta, stante la delicatezza del tema, anche se poi, nella sequenza finale, con un artificio brechtiano, anche quello un po’ démodé, ci viene detto che la voce contraffatta è in realtà quella di un’attrice a dimostrazione delle tremende resistenze con cui si è dovuto confrontare il regista) con didascalie degli intervistati riproposte reiterate volte, altrimenti lo spettatore dimenticherebbe chi sta parlando, molto footage televisivo (americano e iraniano soprattutto), sequenze alfanumeriche e simulazioni grafiche al computer, anche queste ripetute all’infinito. Un tempo film del genere finivano nella sezione “Panorama Dokumente”, da qualche anno a questa parte lo spazio dedicato nel concorso ai documentari è aumentato. Ma bisognerebbe riflettere se un argomento di sicuro clamoroso come questo è sufficiente a giustificare la presenza nel tabellone principale. O se invece ci voleva, magari, qualcosa in più.
(Zero days); Regia: Alex Gibney; fotografia: Antonio Rossi, Brett Wiley; montaggio: Andy Grieve; musica: Will Bates; produzione: Marc Shmuger, Alex Gibney per Global Produce, Los Angeles, USA; origine: USA, 2016; durata: 116’
