Zero - IFFR 2010 - Bright Future
Una ragnatela intricata, un labirinto i cui corridoi si generano tutti dallo stesso punto e sfiorandosi e intrecciandosi conducono a diverse uscite; più semplicemente un puzzle con tanti pezzi unici che danno forma a una figura completa. Zero di Pawel Borowski, è facilmente identificabile con questi tipi di metafore narrative. Giocare con i frammenti non è una pratica nuova per il cinema, prima Altman e poi Inarritu hanno sperimentato in modo efficace quanto sia possibile far aggrovigliare le vicende di molteplici personaggi per poi dipanare una matassa in tanti fili autonomi e compiuti. Eppure, sebbene non proponga nulla di realmente innovativo nella narrazione, l’opera d’esordio di questo regista polacco, non scade nella banalità. Probabilmente merito di una costruzione sufficientemente solida, figlia di una sceneggiatura senza falle, grazie alla scelta di un genere, il thriller, che ben si presta al racconto alternato e grazie anche alla bravura di tutto il cast, ventiquattro attori tutti principali che interagiscono continuamente gli uni con gli altri, facendo crescere pian piano un’unica storia nel giro di ventiquattro ore, nella quale sono tutti più o meno coinvolti.
Proprio il convergere in un unico avvenimento dei piccoli passi di ciascun protagonista è la differenza sostanziale che Zero propone in confronto agli altri film simili a cui sicuramente fa riferimento. Spesso infatti ci si trova di fronte a varie vicende autonome che si concludono ciascuna in maniera indipendente. Borowski, invece, fa di tutto (a volte anche forzando) per rendere ogni minimo gesto di uno dei suoi personaggi influente per gli altri. Si crea una serie di gradi di separazione che collega un bambino di due anni alla morte di una moglie insoddisfatta, un adulterio con un episodio di pedofilia, un ragazzino in attesa di un trapianto a un tassista burbero e logorroico. Il tutto scandito dalla musica ripetitiva e volutamente disturbante di Adam Burzynski che con i suoi arpeggi duri di chitarra elettrica e improvvise contaminazioni di elettronica, detta i ritmi ora pacati e disperati, ora concitati e malinconici di questa narrazione circolare che si chiude con la medesima sequenza d’apertura.
Le pecche di questo film, premiato nei festival internazionali di San Paolo e ora nella sezione Bright Future a Rotterdam, stanno forse nella ricerca da parte del regista di alcuni anelli di congiunzione un po’ troppo artefatti, quasi al limite della credibilità e nel lasciare in sospeso una delle piccole sottotrame che vanno a comporre la storia principale. Ma trattandosi di un esordio non si può non apprezzare la capacità di Borowski nell’accompagnare con movimenti di macchina quasi mai scontati ciascuno dei suoi ventiquattro anonimi uomini qualunque (notare le targhe di tutti i veicoli del film che ripropongono la scritta Doe, da John Doe, lo pseudonimo americano per le persone di identità ignota), in un cammino verso l’autodistruzione collettiva, senza speranza né voglia di riscatto, immersi in nel grigio ghiaccio della perfetta fotografia di Arkadiusz Tomiak.
Intrattenimento, niente di più, ma di buonissima qualità.
(id); Regia e sceneggiatura: Pawel Borowski; Fotografia: Arkadiusz Tomiak; Montaggio: Magdalena Mikolajczyk; Musica: Adam Burzynski; Interpreti: Robert Wieckievicz, Bogdan Koca, Zbigniew Konopka, Andrzej Mastalerz, Cesary Kosinski, Marian Dziedzie; Produzione: Opus Film, Wytwornia Filmow Dokumentalnych.; Origine: Polonia 2009; Durata: 110’.