A Walk in the Park
La mamma, croce e delizia. Ma soprattutto, a quanto pare, croce. Tra complessi edipici, matrigne cattive e mammine possessive in stile Psycho, l’intramontabile tema dell’amore filiale sembra nutrire l’arte più nei suoi risvolti psicotici che in quelli edificanti.
Soprattutto quasi non si conta la quantità di documentari autobiografici incentrati sul rapporto madre-figlio (e nel caso di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi quello madre/figlia). Nel docu-drama A Walk in the Park di Amos Poe l’ingombrante figura materna, per una volta, non è quella del regista ma quella del suo “protagonista” Brian Fass, direttore della fotografia newyorchese che ha sofferto per 13 anni di depressione cronica, uscendo dal tunnel grazie alle passeggiate nel parco del titolo: Central Park.
La parte strettamente documentaria, incentrata su interviste a Brian, al suo coinquilino ed al dottore che ha lungamente spartito con la madre ormai scomparsa, è corredata da brevi filmati familiari sulla mamma Alice (omaggiata dalla bellissima versione di Patti Smith di White Rabbit che scorre nei titoli di coda) ed il fratello, girati da Brian stesso. Ma c’è anche una parte di fiction, in cui Amos Poe ricostruisce degli immaginari momenti vissuti insieme da Alice e Brian citando il “problematico” rapporto tra Norman Bates e mammina in Psycho – di cui per fugare ogni dubbio è anche mostrata la celeberrima scena della scoperta dello scheletro sulla sedia a dondolo – facendo indossare all’attore che fa Brian una parrucca bionda uguale ai capelli della madre.
Il materiale è organizzato in maniera letteraria, con dei titoli a scandire le diverse vicende, in cui il passato ed il presente vengono mischiati in un amalgama anti-cronologico. Lo stile, a partire dai colori pittorici e accesissimi della fotografia (veramente molto bella) è psichedelico, a mimare la condizione psicotica di Brian, a cui peraltro una lunga terapia a base di elettro-shock ha cancellato gran parte dei ricordi del passato. Un passato straziato da una madre malata di diabete ed anch’essa affetta da depressione, di cui Brian è stato per molti anni l’unico compagno.
Una storia terribile insomma, che mal si sposa con il dichiarato intento ironico della citazione hitchockiana. Se infatti Poe non l’avesse detto a chiare lettere, è probabile che a molti il coté ironico del film sarebbe completamente sfuggito. E nonostante A Walk in the Park sia chiaramente l’opera di un regista di talento, che mette a segno delle trovate visive davvero felici (tra cui la scelta di mascherare i visi dei protagonisti riprendendone la silhouette in controluce), resta da vedere se questo può bastare ad infliggere al pubblico tanto dolore. Se infatti è cosa nota che nell’arte è il come si racconta una storia a contare; bisognerebbe ridare un po’ di lustro anche ai cosa e soprattutto ai perché.
(A Walk in the Park) Regia: Amos Poe; sceneggiatura: Amos Poe; fotografia: Brian Fass, Christophe Kérébel, Anthony Jacobs, Patrik Andersson; montaggio: Jett Strauss; musica: Hayley Moss; scenografia: Loretta Mugnai; produzione: New Oz Productions, Lunchbox Pictures; origine: Stati Uniti; durata: 96’.