Masterclass con Walter Hill
Roma, 15 ottobre 2012. E’ il regista Walter Hill, fuori concorso al Festival con il suo Bullet to the Head, a tenere la masterclass di quest’anno, intervistato da Mario Sesti e Giona Nazzaro.
MARIO SESTI: Lei ha iniziato a lavorare con registi come John Houston e Sam Peckinpah e il suo stile ci appare come quello degli anni Settanta. Come si apprende questa cosa, qual è il suo segreto?
WALTER HILL: Se pensassi che è un segreto non ve lo direi! In realtà sto ancora cercando di padroneggiare l’arte del filmmaking, è un processo che non si interrompe mai. Quello che posso dire è che la gente dà troppo credito alla cosiddetta immaginazione: in realtà, come diceva Keats della poesia, fare film in un certo senso è scoprire la verità per la propria storia.
MS: Come è riuscito a restare un cineasta “classico” lavorando all’interno della Hollywood degli ultimi 30 anni?
Non c’è niente di peggio delle persone che si lamentano dicendo che si stava meglio ai vecchi tempi. Ma si stava meglio ai vecchi tempi! A Hollywood vigeva una tirannia incredibile, ma ci si divertiva di più e avevamo quella sensazione di essere in un posto speciale. All’epoca, se ci si concentrava troppo sul business i film venivano male, e lo stesso vale per l’arte, se superava troppo l’aspetto commerciale il film veniva altrettanto male: bisognava trovare un perfetto equilibrio tra le due componenti. Oggi il business ha sopraffatto l’arte dello storytelling.
MS: Lei è l’unico regista della sua generazione ad aver fatto un gran numero di western. Cosa si è perso per le nuove generazioni che non amano più questo genere?
Non sono un sociologo, ma credo che il western sia un genere totemico retto da una certa idea di “purezza” dell’America che è andata perduta. La gente non è più in contatto con le sue radici contadine. Restano solo le vestigia del western, un immaginario che è divenuto stereotipato: il fucile, il cavallo… Ed inoltre è il genere più soggetto a parodia tra le altre forme cinematografiche: quando questo accade indica necessariamente un declino.
GIONA NAZZARO: Una cosa che colpisce molto dei suoi primi film è la velocità del montaggio, in un’epoca in cui questo stile non esisteva ancora.
Credo molto nella velocità e nella brevità dell’enunciazione. Oggi però il pubblico, probabilmente a causa del linguaggio televisivo, è abituato a tagli di montaggio molto più veloci.
MS: Il suo è un cinema d’azione in cui paradossalmente c’è più azione proprio quando non succede nulla.
Il cinema è un’arte visiva, in cui si può dire qualcosa senza bisogno di parole. Ho visto tanti film che erano anche buoni, ma sarebbero stati espressi meglio da un romanzo. Al cinema bisogna saper comunicare senza usare troppe parole. Non che nei miei film manchino le storie… Ho letto da qualche parte che ogni buona storia finisce con una lacrima e in un certo senso ci credo. In effetti c’è una sorta di malinconia in tutti i miei lavori.
MS: Wim Wenders a proposito del cinema classico americano diceva “quanto si sta bene soli tra uomini, anche se non si è gay”… Anche il suo cinema po’ è così.
Sicuramente la gente di solito non si rivolge a me per consigli sui personaggi femminili! Tendo a fare film su uomini in situazioni di difficoltà, cercando di dare alle donne delle figure che abbiano la loro dignità.