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Actus reus - Giustizia all’italiana

Pubblicato il 17 ottobre 2018 da Alessandro Izzi
VOTO:


Actus reus - Giustizia all'italiana

In Italia lo stupro è diventato crimine contro la persona solo nel 1996. Prima di questa data era considerato crimine contro la morale e poche vittime denunciavano i crimini subiti.
Perché pochi ascoltavano.

Questo il cartello in apertura di Actus reus di Julian Grass, finalista al Festival del cortometraggio Filoteo Alberini di Orte. Il titolo originale italiano è ancor più pertinente e rende conto del lucido sarcasmo che sottende l’intera operazione: Giustizia all’italiana .
Il modello di riferimento del corto è da ricercarsi all’interno di un genere relativamente poco frequentato dalla nostra cinematografia come quello del Revenge movie di derivazione americana. Con quelle pellicole, che videro il periodo di massima proliferazione negli stessi anni ’70 in cui l’opera di Grass è non a caso ambientata, Actus reus condivide, in buona sostanza, lo schema narrativo generalmente ripartibile nelle tre fasi canoniche di umliazione/stupro della donna (generalmente a opera di un gruppo di ragazzi), della sua successiva riabilitazione e della conseguente vendetta.
Il corto di Julian Grass complica, però, la linearità di questo schema operando in molte direzioni tra loro opposte e complementari che lo rendono assai più complesso di quanto non paia a tutta prima.
Il primo elemento che colpisce è l’ibridazione, non inedita ma qui particolarmente feconda di sviluppi, tra il genere di riferimento e altri due generi sostanzialmente estranei al contesto: il dramma giudiziario, da una parte, e la cronaca familiare, dall’altra.
Questa sostanziale sovrapposizione di codici rende scivoloso ogni tentativo di lettura ideologica del corto perché le ragioni del pubblico (rappresentate dal dramma giudiziario) finiscono per confondersi con quelle del privato (la cronaca) mentre al bisogno di giustizia tipico dei film processuali si sovrappone, in mancanza di leggi garantiste come in questo caso, l’esigenza di vendetta tipica del Revenge movie. Di qui assume senso la contraddizione interna tra la rappresentazione di un processo concluso che dovrebbe rappresentare la ritrovata parvenza di un ordine etico (tanto più in vista del fatto che tutto avviene durante una cena di famiglia epitome, in Italia, di normalità) e la premessa irrinunciabile del Revenge movie: l’assenza di un apparato di giustizia che possa in qualche modo garantire i diritti della vittima abusata. In Actus reus, infatti, esiste uno Stato e una polizia a cui rivolgersi, ma allo stupro segue una denuncia e, quindi, un processo che si conclude, incongruamente, nell’assoluzione dei rei e nel suicidio della vittima abusata.
Questa scelta narrativa consente di prendere proverbialmente due piccioni con una fava. In primo luogo permette di spostare l’evento criminoso, che nel Revenge movie rappresenta l’incipit del racconto, nel suo pretesto.
Allo spostamento in avanti dell’asse narrativo corrisponde quindi una mutazione delle funzioni attanziali: mentre nel Revenge movie tradizionale l’eroe è quasi sempre la vittima che trova la forza per consumare la sua vendetta, qui, poiché c’è stato di mezzo anche un processo, la posizione dell’eroe deve diventare quella dell’avvocato che diventa vicario di un bisogno di giustizia di una vittima assurta al mero ruolo di mandante.
La seconda conseguenza della scelta narrativa a monte del progetto è ancora più intrigante: poiché tanto lo stupro quanto il processo ad esso conseguito sono, nell’universo narrativo, afferenti entrambi a un indistinto passato raccontato per lo più a voce, essi finiscono per essere forgiati nella stessa sostanza e per rispecchiarsi l’uno nell’altro.
In Actus reus il processo rappresenta per la vittima un secondo stupro non perché questo concetto sia espresso a parole, ma perché, con maggiore evidenza, le due realtà sono equiparate dalla comune posizione all’interno dell’ordito narrativo.
Di più: poiché tanto il ricordo del processo quanto quello dello stupro riemergono nel tessuto narrativo solo dopo la metà racconto, essi divengono l’emblema di un bisogno di rimozione di una società, come quella italiana, che celebra, sì, i processi, ma sulla base di una presunzione di con-colpevolezza della vittima dello stupro che impedisce l’approdo a una qualsiasi forma di verità giudiziale.
Questa scelta è il vero atto di coraggio del corto che finge di raccontare una storia ambientata negli anni ’70 per affrontare, invece, di petto un tema di stretta attualità come quello della violenza di genere.
Di qui il bisogno di un finale di forte impatto grafico che si ricolleghi proprio alle regole del Revenge movie dove a una giustizia impossibile si risponde con una vendetta che trasforma però la vittima (o la sua figura vicaria) in un nuovo carnefice. Esattamente come avveniva nei primi film di Wes Craven cui Actus reus può essere accostato senza troppi rossori.

Tweeting: Un corto a cavallo tra generi diversi sulle contraddizioni del nostro senso di giustizia

Where to: Visto al Festival Filoteo Alberini di Orte


(Giustizia all’italiana); Regia e sceneggiatura: Julian Grass; fotografia: Mirco Valenza; montaggio: Sergio Recchia; musica: Julian Grass; interpreti: Lidia Vitale, Blu Yoshimi, Tullio Sorrentino; produzione: Letterbox Films; origine: UK, Italia, 2017; durata: 25’


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