AMANDO A MARADONA

Del Pibe, di quel sudaca sovrumano e gommoso, di quella palla ipersensibile, rapida, rimbalzante di magie anaerobiche, nervosa nei microscatti improvvisi, piangente di gioia e incline al racconto latino di emozioni malinconiche e non, si è detto e cantato tanto. La polvere della borgata, le reti arrugginite degli spettatori e quelle bucate del campetto terroso, le conoscevamo bene. Gli amici, che ancora mangiano grazie a un fornello di fortuna latte bollito e pane, pure quelli li conoscevamo. Il passaggio da testimonianze parentali in bianco e nero a quelle colorate in digitale del documentarista di turno, conoscevamo ed amavamo pure quelle. La bonbonera, il Camp Nou, Il San Paolo vesuviale azzurro infernale e paradisiaco, non potevamo non conoscerli: quel triangolo meridionale di mare di porti e mercati rionali, volti ancora autentici e sole, il palcoscenico erboso e pietroso in cui el gordito sacro muoveva i suoi “puma” a tredici tacchetti, anche quelli, santo Dio, li conoscevamo a menadito. Conoscevamo gli effetti fisarmonica di quel corpo meticcio, sudaticcio e tatuato. La maschera schiacciata all’interno dell’auto e le teste da dietro di tutti quelli che volevano comunque puntare un mircofono, un telecamera, una battuta professionale. Conoscevamo il babbo dagli occhi piccoli, la mamma commossa e il faccione di Diego in confessione, a panza larga e canotta scura. Le sue parole all’interlocutore guardando verso l’alto, le cose dette contro, con poca dialettica e la puntuale e secca vena di sentenza. Le sue maglie, la barba di certe volte, il dieci perfetto, il petto nudo festante negli spogliatoi vaporosi di scudetto. Poi conoscevamo i pallonetti in cui c’era tempo di seguire l’artista mentre la sfera era ancora in volo. Ci voleva del tempo e un pizzico di pazienza per vederla cadere proprio là. E per fortuna che non era in diretta, perché sarebbe disturbo, paura che il capolavoro estetico e contenutistico non si compiesse. Conoscevamo le corse a scavalcare la pubblicità, i riscaldamenti artistici, la calda relazione coi compagni di domeniche epiche, letterarie, calde e innevate. Conoscevamo il pomeriggio dei 65.000 nel tempio di Fuorigrotta per conoscerlo e vederlo palleggiare. Gli ottantamila che ci ricorsero quando seppero che il Dio sarebbe tornato, quella notte soltanto, per salutare l’amico Ciro. Che poi di amici, Diego, bizzarri, riccioluti, improbabili e in sovrappeso ne aveva e ne ha tanti e noi li conoscevamo, perché di cassette, dvd, reportages, film, inchieste, puntate su di lui ne sono state fatte tante. Per quello di fronte ad un documentario dal titolo Amando a Maradona, il nostro atteggiamento era ambivalente: da una parte il desiderio sicuro di volere assistere al cinema intrinseco di Diego Maradona, dall’altra la sensazione di dovere sensualmente riassorbire il fascino potente e già sperimentato del pibe de Oro. Nessuno si sarebbe annoiato o infastidito davanti all’intervista di Diego fanciullo che esprime il desiderio di giocare in nazionale e quello di vincere con essa la coppa del mondo. Ci saremmo volentieri sorbiti la real violenza della rissa contro l’Atletico Madrid, il magnetismo del goal più bello della storia del calcio, forse il momento sportivo più alto di sempre: lo slalom tribale del selvaggio tra i conquistatori occidentali e il suo delicato posare la bola in fondo al sacco, dopo averli fatti fuori tutti e prima di levarsi leggermente dal suolo per tentare di sfiorare l’amico Dio, el barba come lo chiama lui. Ma in fondo speravamo in un doppio fondo di materia, in uno scantinato maradoniano scovato per l’occasione, insomma in qualcos’altro di Diego Armando. Risultato sorprendente per due motivi. Il primo è il punto di vista dell’autore, che sceglie di puntare sul rapporto tra il campione e la gente semplice argentina. Il secondo è l’aspetto divino che il numero uno mondiale assume nei confronti del suo popolo. Diego, risulta da due ore di materiale oltre che poco visto anche ragionato su un taglio diverso anche delle immagini canoniche, non è un uomo e non è nemmeno un campione, non è neppure il calciatore più forte del mondo. E’ una figura sacra, un culto quasi religioso, l’oggetto mitico e reale che si infila negli spazi più umili del suo paese, fin sotto la pelle dei ragazzi, sui muri e nelle voci cantanti di un popolo provato e forte. Per i suoi goal, le sue finte, le sue fughe articolate sulle fasce e le contorsioni da infortunio prima dello spunto mozzafiato e segna gare. Ma anche per la sua storia, le sue scelte, i suoi errori e le probabili stangate che ha subito. Maradona è la parte più vera del mito sportivo, la sua immagine ha una macchia che diventa ferita, simbolo, appartenenza. La gente vede in lui un dribbling sociale, il dolore manifesto per uno sgambetto da dietro, i prodigi dell’acqua santa e poi una punizione magistrale azzitta potenti. L’amore del popolo argentino per Diego Armando Maradona è enorme. Questo documentario lo racconta.
Pesaro, Giugno 2006
regia,: Javier M. Vazquez, Sceneggiatura,: Javier M. Vazquez, Nicolas Avruj,Montaggio,: Nicolas AvrujFotografia,:Marcelo Lavintman produzione: Santiago Bontà
