Americana – The Vampire Diaries

In questa serie del network The CW (in Italia trasmessa da Mya) si incontrano i due amori che hanno reso celebre Kevin Williamson: l’horror (anche se qui vi è una visione assai meno ’adolescenziale’ e scherzosa rispetto a Scream) e la sua altra faccia, ossia il teen drama ’crepuscolare’ à la Dawson’s Creek. In mezzo vivono amori contrastati che giungono fino al melodramma, dove protagonisti sono una ragazza diciassettenne e due fratelli vampiri (apparentemente più o meno suoi coetanei), in una cittadina del sud degli Stati Uniti chiamata Mystic Falls dove, durante la Guerra di Secessione, venne combattuta una sanguinosa battaglia. E da quel periodo traumatico per l’America, la fine di un’epoca e l’inizio della modernità, provengono i fratelli Stefan (Paul Wesley) e Damon Salvatore (Ian Somerhalder, il Boone di Lost), simboli di un’eterna adolescenza e delle due facce della vita: da una parte una casta bontà che ha saputo scendere a patti con la propria animalità, ma comunque non scevra di malinconiche tensioni, e, dall’altra, una ferocia piena di ferina e carnale vitalità, nonché di ironico e strafottente cinismo. Tra di loro Elena (Nina Dobrev) che da poco ha perso i genitori, rimasta sola col fratello minore Jeremy e la giovanissima zia che è tornata per prendersi cura dei nipoti, nonostante non sia molto più grande di loro. Mentre Elena, così somigliante a Elizabeth, il grande amore che centocinquanta anni prima unì e divise Stefan e Damon, è forse l’unica causa per colpa della quale entrambi sono riapparsi in quei luoghi dopo tanto tempo («Non è sempre colpa dell’amore di una donna?», dice Damon nell’episodio #4, Legami familiari), in una comunità che loro stessi hanno contribuito a fondare. E tra i tre ragazzi, vertici di un triangolo di sensi, sentimenti e sensazioni, è racchiuso The Vampire Diaries, il quale è anche e soprattutto un melodramma, palesando così le relazioni che abitualmente avvicinano questo genere all’horror, entrambi per statuto abituati a mostrare le difficoltà e gli orrori della vita intrappolata tra forti passioni e l’eversione contro l’ordinarietà dentro e fuori lo schermo.
Scritto assieme a Julie Plec (ideatrice di Kyle XY) The Vampire Diaries è tratto dalla saga di romanzi di Lisa J. Smith, intitolata Il diario del vampiro, che ha avuto inizio nel lontano 1991. Ora la figura del vampiro è tornata di moda, assecondando una volontà di normalizzare l’estraneità attraverso la comunicazione resa possibile dall’amore, un’attrazione verso il più distante tra gli esseri: nella migliore delle ipotesi sarebbe questo un modo per avvicinare gli estremi ai fini di una pacifica convivenza, fondamentale nel mondo d’oggi, (come in True Blood); nella peggiore si tratterebbe solamente di addomesticare la diversità.
In #5, L’ora della verità, Damon dirà a una ragazza, Vicki, che «Sono stato innamorato. È doloroso e senza senso. E sopravvalutato». Ciò è sintomatico di un senso di solitudine che pervade le figure ’giovanili’, quelle vampiresche come quelle umane, in perfetto stile da teen drama à la Williamson. Epperò, proprio sotto questo punto di vista, è da sottolineare come il sentirsi soli nella propria esistenza non sia uguale per tutti, perché innanzitutto fondamentale è l’humus da cui si proviene, come griderà Vicki con rabbia e mestizia tirando fuori la sua noia del vivere. In una provincia che, tra l’altro, è un luogo mentale e non solo fisico che Williamson da sempre ama tratteggiare.
Ma l’uomo che attraverso Scream ha definitivamente svelato gli arcani e le regole che hanno governato l’horror in quanto genere codificato, giungendo fino al citazionismo più spinto (tanto che si potrebbe pensare come l’horror americano mainstream non si sia ancora ripreso dal colpo assestatogli, preso come è oggi dalla febbre del remake, avendo rinunciato a qualsiasi sperimentazione), e che della cultura cinefila ha poco dopo mostrato il volto più benigno con Dawson’s Creek, qui si permette un breve giochetto sui gusti televisivi di Stefan, proprio perché l’intera serie mostra vari luoghi comuni (fin dentro i suoi apparati visivo e sonoro) anche nell’intenzione di legarsi al tema centrale della serie, ossia che «Le persone dovrebbero essere chi dicono di essere e non mentire o nascondere chi sono in realtà» (sempre in #5). E da ciò discenderebbe che l’amore per il cinema e per la televisione, per la loro storia, diverrebbe qui una necessità affinché grazie a esso ci si possa denudare, mostrandosi fin da subito per quello che si è, tornando all’origine e senza più alcun distanziamento. Questo poiché in fondo cosa è l’amore se non il modo più adatto per avvicinarsi e per conoscere gli altri e, quindi, se stessi?
E in effetti certi stereotipi possono essere riutilizzati per fare in modo che tra di essi traspaia l’umanità dei personaggi che mani meno capaci al contrario saprebbero solamente nascondere. Così come si utilizza il luogo comune di talune ragazze ’facili’ per evidenziare le cause sociali che le hanno condotte fin lì, non viene però dimenticata la caratteristica personale dell’individuo preso in esame, senza perciò appiattirlo troppo contro un anonimo sfondo collettivo. Per esempio mostrando come si possa essere succubi della noia della provincia e di una vita sfortunata - oltreché del proprio vittimismo a neanche vent’anni – un po’ adagiandosi sul fatto che le differenze di censo tra coetanei col tempo allontaneranno l’una dall’altra persone che, piuttosto, in gioventù erano state avvicinate da profonde sfortune. In certi casi, quindi, sembra che non si possa scampare al proprio destino, o almeno a quello che ognuno contribuisce a creare per se stesso. Mentre altre volte può capitare che un carattere come quello di una ragazza superficiale, Caroline, possa diventare piano piano un personaggio vero e proprio, con le sue sfumature, e divenire così indipendente.
Perché ciò che preme è (soprav)vivere potendo contare sulla libertà di operare secondo le proprie scelte, senza correre il rischio di essere soggiogati da altri, come pure dal proprio istinto e dalle proprie paure. Poiché, come dirà Stefan (in #6, Ragazze perdute) a una Vicki ormai vampirizzata, «Decidiamo noi la nostra strada: i nostri valori e le nostre azioni, quelli che ci definiscono».
Il problema principale di The Vampire Diaries – e forse il suo unico errore - è l’utilizzo spasmodico della parola e dei concetti che essa, a volte, veicola in modo troppo esplicito, come nell’espediente di scrivere i propri pensieri su di un diario. Così come fin troppo si tende ad annegare la narrazione in una colonna sonora musicale composta di svariati canzoni pop-rock, ma anche di numerosi e spesso pregevoli brani strumentali composti da Michael Suby, autore che già molto aveva dato alla riuscita di Kyle XY.
Invece quello che piace di The Vampire Diaries è la sua capacità di mostrare e di saper suscitare passioni, con semplicità eppure agendo con intensità, dimenandosi tra misteri, intrighi e atmosfere gotiche, dove pressante si fa sentire la presenza della componente orrorifica, tra le cui pieghe spunta quella legata al teen drama, tra loro ibridatesi in maniera spesso convincente. Ovvero come accadeva in Kyle XY con la fantascienza. E dove l’insieme funziona grazie a una profondità nei personaggi e a una capacità di creare interesse attorno alle loro vicende che è sconosciuta a tanto cinema hollywoodiano, Twilight in primis, anche per merito, ovviamente, dell’ontologia propria del moderno racconto televisivo seriale.
