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Americana – True Blood

Pubblicato il 10 maggio 2009 da Marco Di Cesare


Americana – True Blood

Come il sangue trasporta la vita dentro il nostro corpo, mescolando essenze tra le più varie, così la creatura che l’Alan Ball di Six Feet Under e American Beauty ha tratto per la HBO dalla serie di romanzi di Charlaine Harris, The Southern Vampire Mysteries (cominciata nel 2001 con Finché non cala il buio) unisce l’orrore all’ironia e alla sensualità più spinta, in una rincorsa senza sosta su di una strada che non si sa dove porti – nei pressi del B-movie, magari, come poco tempo fa lo splendido Planet Terror di Robert Rodriguez - invitandoci a seguirla, sorridendoci beffarda. Ma mentre il sangue in noi scorre e pulsa, coprendo sempre la medesima distanza, avanti e indietro lungo il tragitto che unisce centro e periferia, rinchiuso dentro la stessa gabbia, in True Blood convivono molti centri e nessuna periferia, spiazzando così di continuo lo spettatore e destando meraviglia su meraviglia.

In un presente ’altro’ che potrebbe anche essere un futuro vicinissimo, i Giapponesi hanno inventato il ’Tru Blood’, sangue sintetico che è diventato l’alimento base dei vampiri, i quali appaiono ora desiderosi di convivere pacificamente con gli umani.
Sookie Stackhouse (Anna Paquin) è la giovane cameriera di un locale a Bon Temps, una cittadina della Louisiana, che cerca di barcamenarsi tra clienti a volte poco educati. Di certo è assai più presentabile il tenebroso Bill Compton (Stephen Moyer), il primo vampiro che si faccia vedere in quei paraggi, un essere che ha oltrepassato il secolo e mezzo («Sono diventato un vampiro nel 1865, quando avevo trent’anni». «Cavolo! Ne dimostri di più!». «La vita era più difficile, prima»). Sookie, però, non è una persona come le altre: lei è una telepate che deve concentrarsi per non sentire i pensieri degli altri (alla The Listener); ma, stranamente, non riesce a entrare nella mente dei vampiri. Si sentirà allora ancora più attratta da ciò che non può conoscere con facilità, ossia il mistero: tanto che, forse, gli concederà anche la propria verginità.
Peccato, però, che presto cominceranno a essere uccisi alcuni ’Fangbangers’ (in Italia tradotti come ’cerca vampiri’), ovvero persone che amano provare l’ebrezza di un rapporto sessuale con gli esseri dai denti aguzzi.

Si sa bene come la figura del vampiro sia da sempre intrecciata all’erotismo più o meno esplicito. E ce ne è di Eros in True Blood, sia nella sua accezione più carnale che in quella maggiormente interiore, spirituale quasi. E proprio attraverso i diversi approcci al sesso si esplicita il dualismo tra animalità e umanità – intesa questa come maggiore raziocinio – come in un ritrovarsi all’interno della (in)temperanza, senza distinzione aprioristica tra succhiasangue e omuncoli: perché il fratello di Sookie, Jason, è razzista verso il diverso, è alquanto idiota ed è un tombeur de femmes sempre allupato; e lo stesso vale per i vampiri meno ’civili’.
La temperatura comincerà ad innalzarsi fin da subito. Perché la serie inizierà con una ragazza che guida, fari che illuminano una strada di notte, con accanto un boyfriend che russa: annoiata, lei lo sveglierà infilandogli la mano nei pantaloni e muovendola con precisa decisione, permettendo di trovare entrambi una certa gioia, e mostrando anche perché gli Americani amino tanto il cambio automatico. Ma, all’improvviso lui noterà la scritta «We Have Tru Blood» accanto a un market, bella grossa e luminosa come il sole di notte. In un posto frequentato da vampiri, il ragazzo è intenzionato a cercare un po’ del loro sangue, che agli umani può assicurare uno sballo senza confini, potenzialmente molto pericoloso. Intanto un dibattito in televisione vede protagonista Nan Flanagan, esponente della ’American Vampire League’, donna educata e dall’aspetto mite e ’civilizzato’ che per la sua gente reclama gli stessi diritti degli ’altri’, visto che anche loro pagano le tasse, rispondendo con garbo alle lamentele mostrate dal suo interlocutore riguardo a un loro lungo e presunto passato di assassini di innocenti. Lei risponderà affermando che ciò non è stato mai dimostrato, sottolineando poi i trascorsi non proprio integerrimi dell’intero genere umano. Nel mentre i due ragazzi troveranno un vampiro in carne e ossa.

Tutto accade in una manciata di minuti, cui seguiranno gli ottanta secondi di una sigla che è un piccolo capolavoro espressivo, ulteriore presentazione delle tematiche e delle situazioni di True Blood - ma non dei suoi personaggi - attraverso immagini, numerose, che scorrono veloci, tra accelerazioni e rallentamenti, sul sottofondo di un Blues Rock, in un montaggio dove una subliminale confusione unisce realismo e visionarietà, carnalità e astrazione, materia e rappresentazione, tenendole sempre sospese tra espressione e mistero, con un evidente effetto di straniamento cui solo la serialità potrà forse farci abituare. Tante immagini (s)legate all’interno della politica di una continuità composta di frammenti, tra cui, ad esempio, delle case linde guardate attraverso un super 8 sporco, un coro gospel, la polizia che porta via un manifestante, un serpente che attacca, un bambino con la divisa del Ku Klux Klan, un bimbo che si impiastriccia la bocca con il rosso di una fragola, la scritta ’God Hates Fangs’ (’Fangs’ vuol dire ’canini’, ma di certo vuol richiamare la parola ’Fag’ che, in slang, significa ’frocio’, al fine di rammentare gli slogan di certe menti illuminate), una donna che trattiene un uomo tra le gambe, due gay in un bar, una ragazza che si struscia con un uomo, una prostituta probabilmente, paludi, una pianta carnivora che pasteggia, la veloce putrefazione di un animale feroce, il pubblico di una chiesa, la nascita di un insetto da una larva, una credente di colore posseduta da chissà quale visione, labbra rosse, il battesimo di una donna bianca in un lago, di notte, come un fantasma che ha paura di affogare.
Un ritratto perfetto del profondo Sud dell’America, dove il calore di quei luoghi - più o meno gelidi - si sente scorrere lungo lo schermo, voracemente, una volgarità piena di gioia violenta che sconvolge l’horror vampiresco, immesso nella leggerezza assai pe(n)sante di una rappresentazione disturbante proprio perché mai bassa nella sua ricerca dell’eccesso. Scontro tra luce e tenebre, natura e cultura: ovviamente senza i crepuscoli scarsi di idee e pieni di compromessi di Twilight, con l’ironia di Buffy l’ammazzavampiri sì, ma soprattutto con una vicinanza al sempre fondamentale Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow del 1987, ovverosia la messa in scena della relazione tra un vampiro e un umano e, soprattutto, il realismo orrorifico sotto la luce del sole, il sovrannaturale nella natura. Perché fin dall’incipit si sente la presenza della surrealtà di Alan Ball, genesi di un luogo che è un ’altrove’, presente ma senza tempo, dove il sogno si confonde con la verità materiale.
Ognuno dei primi tre episodi (in onda alle 23.00 su Fox da lunedì 27 aprile, uno a settimana, cinquanta minuti di durata) si è concluso con attimi di pressante violenza: nel primo avviene al presente, sotto i nostri occhi; nel secondo se ne prospetta una sua imminente possibilità; nel terzo troveremo la traccia di una brutalità già avvenuta. Tutto rimane sospeso, in una serialità continuamente aperta, come Lost e la sua isola ’magica’ (qui i pezzi di Alessandro Izzi e Giampiero Francesca).

Ma non di solo sesso o amore si può vivere. E, difatti, True Blood ha sotteso come tema principale l’incontro tra le alterità – significato più ampio delle due parole appena citate - nella ricerca di una comunione generale, perché una minoranza veda riconosciuti i propri diritti (come nel recente cinema di impegno di Gus Van Sant, attraverso Milk, sacrificio di un corpo ai tempi dei mass-media): si tratta degli omosessuali? Dei neri? O di altri ’extra-comunitari’? Probabilmente la serie parla degli outsider, qualunque essi siano, come in un film di Van Sant, come in un qualsiasi horror, dove basilare è la figura dell’estraneo, o dell’escluso se si preferisce.
E questa serie, che per ora brilla di equilibrio formale, si affida alle convenzioni, solo per il gusto di sfidarle. Così avviene per il sangue di vergine di Sookie e per il suo pressante desiderio che cresce assieme al pensiero di avere trovato finalmente qualcuno adatto a lei, fanciulla ancora più amorevole grazie a un sorriso dove fanno bella mostra di sé due incisivi inframezzati da una fessura, teneramente antiestetica e capace di richiamare alla mente canini ben più insidiosi, come a prefigurare fin dall’inizio un incontro, l’unico possibile. Mentre il personaggio più accattivante è la migliore amica della protagonista, l’afro Tara Thornton (Rutina Wesley), la quale unisce la giovinezza a una vita già vissuta, la stanchezza a una certa speranza, lei figlia di una ubriacona fervente religiosa, giovane caustica che con rabbia lotta contro le apparenze che la vorrebbero già marchiata a fuoco a causa del colore della pelle.
Di certo il lato fondamentale di True Blood è questa sua capacità di astrarre e allargare il discorso che propone. E, come la notte e il giorno, l’alternarsi tra umano e vampiro, tra cultura e natura, riesce a evidenziare ancor più l’ambiguità dell’esistenza, nonostante tutto si presenti per quello che è, profondamente in superficie, ma dove difficilmente si è immuni dalla contaminazione, dalla osmosi tra i due lati dell’umano. Ambiguità che passa attraverso molte parole, visto che a farla da padrone sono comunque i dialoghi, tarantiniamente diretti e sconci – sopra le righe come tutta la messa in scena - ma anche sentiti in quanto esplicazione di interiorità e psicologie, rappresentando più del sesso la messa in comunicazione profonda dei due mondi e reale motore dell’intera vicenda. Affinché quel bisogno di ognuno di noi di chiedere all’altro Lasciami entrare possa rivestire un significato pieno, così come la risposta che ne conseguirà, qualunque essa sia: purché autentica.


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