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Milk

Pubblicato il 23 gennaio 2009 da Marco Di Cesare


Milk

Alla fine di un quinquennio di opere profonde e sperimentali, un anno dopo un capolavoro assoluto come Paranoid Park, ciò che più risalta durante la visione del nuovo film di Gus Van Sant è il suo costituirsi come caso nuovo e unico all’interno della filmografia del maestro di Louisville: perché Milk si pone a metà strada tra la sua deludente parentesi mainstream e i lavori più personali che hanno innovato il linguaggio cinematografico negli ultimi vent’anni. Perché, durante i centoventotto minuti di proiezione che si dilungano alquanto leggiadri, si ha la sensazione di come il regista sia riuscito a evitare i problemi di solito insiti nei biopic, ossia quella tipica costrizione che ingabbia la forma personale da Autore – diversamente da un altro grande americano, Michael Mann: perché Alì, nonostante certe sottigliezze e meraviglie, rimane comunque uno dei suoi film meno pregnanti - tanto che la rappresentazione della storia di Harvey Milk potrà assurgere, negli anni a venire, a nuova pietra di paragone a Hollywood per questo particolare genere cinematografico (ovviamente ipotizzando che la Mecca escluderà dalla propria cerchia la visionarietà di un Io non sono qui) e per quello legato all’impegno civile.

Van Sant racconta gli ultimi otto anni di vita di Harvey Milk (Sean Penn), consigliere comunale a San Francisco nel 1978 e primo omosessuale dichiarato ad essere eletto in America a una carica pubblica.
Tutto comincia a New York, quando il trentanovenne Milk rimorchia con elegante, delicata e suadente ironia un giovane sotto la metropolitana, Scott Smith (James Franco), al quale chiederà di farsi accompagnare lungo quella notte che lo condurrà fin dentro i quarant’anni. Quegli attimi trascorsi insieme in un letto diventeranno, però, l’inizio di un viaggio che li porterà fino alla costa più lontana, quella dove riposa la baia di San Francisco, la terra nella quale la libertà è più facile da raggiungere, ancor più durante il decennio segnato da profondi sconvolgimenti culturali e dall’abbattimento di molte barriere. I due partner alloggeranno in un quartiere popolare, Castro, meta di molti omosessuali e di svariati hippy. Qui Milk prenderà coscienza della situazione sociale e politica intorno a sé, delle condizioni di vita dei gay in America e delle altre deboli minoranze in un Paese sordo e refrattario al cambiamento. Così radunerà sempre più persone, militanti per i diritti umani, amici, aiutanti per la campagna elettorale: gente come Cleve Jones (Emile Hirsch), Dich Pabich, Jim Rivaldo, Michael Wong, Anne Kronenburg, Danny Nicoletta, persone che segneranno un’intera generazione. Intanto, al crescere della sua fama, Milk incontrerà i primi, drammatici, problemi nella vita privata. Fama e seguito raggiungeranno l’acme quando sarà in prima fila nel promuovere una lotta contro la cosiddetta ’Proposition 6’ che vorrebbe bandire gli omosessuali dall’insegnamento nelle scuole pubbliche della California. Per quanto riguarda la vita pubblica, Milk sarà minacciato di morte e incontrerà alcuni problemi nei rapporti con il consigliere Dan White (Josh Brolin), esponente del cattolicesimo di destra e anche lui neo eletto, allontanatosi da Milk dopo un iniziale avvicinamento.

Fin dai primi momenti Gus Van Sant, poeta degli esclusi e cantore dei giovani bruciati dalla solitudine, mostra una dolce e anche ironica insistenza sulla contrapposizione tra gli anni verdi e la maturità, tra la capacità di coltivare i sogni e il definitivo abbandono di qualsiasi speranza: perché Harvey Milk viene spesso considerato dagli interlocutori, più o meno scherzosamente, come un signore in cerca di una nuova giovinezza, illazioni queste alle quali lui risponde sempre con un sorriso. Un sorriso come i tanti che elargisce assieme alle molte parole che riempiono il copione, parole che veicolano emozioni e una particolare gioia di vivere che pervade tutta la pellicola e che rimane, probabilmente, come la parte più importante e compiuta del ritratto documentaristico di un’epoca. Gioia dalla quale Van Sant ha preferito estromettere le droghe e l’aspetto sensualmente più crudo del sesso, prediligendo scene cariche o di ironia, o di un amore tenero come la meravigliosa sequenza tra Alex e Jennifer, così pudicamente filmata in Paranoid Park. Ma il regista di certo non ha voluto escludere l’indignazione per quanto accaduto a Milk e per le tensioni razzistiche che innervavano (?) l’America senza, però, scadere mai nel didascalico.
Perché si è riusciti a evitare un tono stancamente agiografico, grazie a un registro partecipe, ma allo stesso tempo distaccato, poiché l’interesse maggiore, più che nella sola esaltazione di una figura di certo fondamentale, risiede nel mettere in scena anche la sua vita privata, colta nel teatro della politica, un palcoscenico sul quale l’indiscusso protagonista si chiama ’Sean Penn’, la cui bravura risulta addirittura imbarazzante, riuscendo a irradiare ogni parte del suo essere: dalla voce all’uso di un corpo qui divenuto esile, fino a un volto dove ogni ruga esprime un’emozione che proviene da lontano, profonda come il trascorrere del tempo che l’ha scavata. Il grande attore domina la scena, circondato da un cast che risplende tutto sotto la guida di Van Sant: da Josh Brolin (un plauso a un attore che, da un anno a questa parte, ha lavorato in molti film, tutti perlomeno interessanti) che dona a Dan White una voce sommessa come una violenza fredda e repressa, al talentuoso Emile Hirsch, prima ’ragazzo di vita’ e poi fiero militante, e a un James Franco che sa ritagliarsi spazio con garbo in un cast di così elevata caratura. Cast che costituisce un ensemble di voci che vuole restituire la coralità che ben rappresenta la politica nella sua essenza di vivere nel sociale, all’interno di una comunità. Teatro che è il palcoscenico del mondo, dove il pubblico si incontra con il privato. Quel teatro rappresentato dalla Tosca di Puccini, tanto amata da Milk e oggetto del suo ultimo sguardo, forse unica forzatura di valore simbolico in un film peraltro equilibrato. Forzatura legata alla sfera musicale che va anche oltre il rischio corso dalla partitura di Danny Elfman, la quale riesce sempre a fermarsi un attimo prima di sfociare nella sottolineatura troppo sfrontata.
Tutto è raccontato attraverso l’espediente di un flash-back, con Milk seduto da solo nell’intimità della propria cucina, colto nel dettare il suo diario a un registratore, mentre legge gli appunti sulla sua vita. Oltre a notare la vicinanza con la parola scritta tanto amata in Paranoid Park da Alex, fondamentale per cercare una maggiore coscienza di sé, si fa di certo largo l’idea di come vari film di Van Sant siano dei diari, collage dove si incontrano eterogenee forme filmiche, vari formati di una pellicola che diviene essa stessa corpo significativo, come nel caso del passato che è un ricordo drogato di felicità dalla quale il Bob di Drugstore Cowboy cerca di liberarsi al termine del film. In Milk la stesura del diario avviene sotto i nostri occhi, il passato si incontra con la suprema presente autorità dell’Autore, il formato grezzo e ’familiare’ di repertorio si innesta all’interno del 35mm, il documentario si fonde con la fiction, donando così ancora maggiore pregnanza all’intera opera, al suo realismo poetico e al suo messaggio politico: perché la democrazia possa significare rispetto di tutti verso tutti, perché ’essere’ e ’umano’ possano sempre leggersi insieme, l’uno dopo l’altro, divenendo l’unica norma che sia lecito accettare, ieri come oggi.


CAST & CREDITS

(id); Regia: Gus Van Sant; sceneggiatura: Dustin Lance Black; fotografia: Harris Savides; montaggio: Elliot Graham; musica: Danny Elfman; interpreti: Sean Penn (Harvey Milk), Emile Hirsch (Cleve Jones), James Franco (Scott Smith), Josh Brolin (Dan White), Diego Luna (Jack Lira), Alison Pill (Anne Kronenberg); produzione: Focus Features, Groundswell Productions, Jinks/Cohen Company; distribuzione: BIM; origine: USA, 2008; durata: 128’; web info: sito italiano.


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