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Venezia 64 - Gran Premio della Giuria: Io non sono qui

Pubblicato il 8 settembre 2007 da Salvatore Salviano Miceli


Venezia 64 - Gran Premio della Giuria: Io non sono qui

Confrontarsi con una personalità come Bob Dylan in ottica cinematografica prevede due soluzioni possibili. Si può procedere in maniera didascalica seguendo il classico modello del Biopic o sconvolgere i rigidi confini dell’autobiografia piegando la cronaca all’emotività della musica. È questa, forse, l’unica chiave in grado di tracciare i contorni di una figura la cui influenza ha fortemente fatto sentire la sua eco nel panorama musicale e sociale del secolo scorso.
Todd Haynes, già autore dell’apprezzato Far from Heaven (t.i. Lontano dal Paradiso, lascia che la sua penna, in fase di sceneggiatura, segua la seconda via, dividendo la vita di Dylan in sei fasi, affidandole a sei interpreti diversi, custodi, ognuno, di sparpagliate schegge di una unica, ma quantomai complessa, personalità. Dylan diviene dunque un unico grande prisma che la mano del regista rotea lentamente, mostrandocene una faccia alla volta per poi intersecare ogni singolo fascio di luce.
Accompagnati dalle sue note scopriamo gli inizi folk così come la svolta rock, vissuta da molti come un segnale di disimpegno politico, l’incidente in moto che lo costringe ad una lunga pausa dalle scene, e l’ultima parte della sua carriera portata sullo schermo da una Cate Blanchett di cui non ci stancheremo mai di sottolineare la bravura. Il suo lavoro sul personaggio, sul nervosismo espressivo del volto travalica la mimesi giungendo sino all’iconico.
Mettendo da parte l’originalità dell’approccio al film di Haynes, vale spendere due parole sulla costruzione puramente visiva. Le stesse immagini, infatti, sono figlie della musica e dei testi di Dylan, posseggono la loro forza ed irriverenza, la tipica voglia di sfuggire ad una chiarezza concettuale invitando le suggestioni a prevalere sul significato. Cercando, poi, di non sconfinare nell’eresia, certe sequenze, la presenza contemporanea sullo schermo di alcuni elementi, così come la dissonanza semantica di determinati accostamenti portano alla memoria il respiro, solo quello, di Big Fish di Tim Burton.
Impossibile raccontare gli innumerevoli passaggi storici che il film si porta dentro nel suo scomporre la personalità di Dylan. Colpisce, però, una attualità violenta e la consonanza con la nostra epoca. Oggi come ieri, infatti, nessuna società mondiale può dirsi risolta, e le guerre continuano a dimostrarlo, ma diversamente da ieri ciò che viene a mancare sono la forza e la voglia di reazione, quella che un esile cantante folk, all’inizio della sua carriera, metteva dentro le sue canzoni.
Anche parlare degli interpreti non è cosa facile. A parte la già citata Cate Blanchette, ogni attore si accosta a Dylan con straordinaria personalità, senza piegare la testa al peso della figura portata sullo schermo ma fronteggiandola e rendendola un coagulo di tensioni inespresse. Vale per Christian Bale, per Richard Gere, per Heath Ledger. E vale anche per Charlotte Gainsburg e Julianne Moore, rispettivamente moglie e successiva compagna di Dylan.
Una parola raramente può valere un’immagine. Nel caso di I’m Not There (il titolo riprende un brano dalle Basement Tapes Session, registrate a Woodstock con The Band nel 1967) solo l’ascolto e la visione possono dare piena coscienza della complessità di una pellicola che a noi è piaciuta molto.


CAST & CREDITS

(I’m Not There ) Regia: Todd Haynes; sceneggiatura: Todd Haynes, Oren Moverman; fotografia: Edward Lachman; montaggio: Jay Rabinowitz; musica: Randall Poster, Jim Dunbar; scenografia: Judy Becker; costumi: John Dunn; interpreti: Christian Bale (Jack/John), Richard Gere (Billy), Heath Ledger (Robbie), Charlotte Gainsburg (Claire), Julianne Moore (Alice) Michelle Williams (Coco), Cate Blanchette (Jude); produzione: Killer Films; distribuzione: Bim; origine: USA; durata: ‘135;


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