Paranoid Park
Vince il premio speciale della sessantesima edizione del Festival di Cannes Paranoid Park di Gus Van Sant, regista tra i più ammirati dal pubblico della Croisette, vincitore della Palma d’Oro nel 2003 con Elephant, splendida rivisitazione in chiave intimista dell’eccidio della Columbine High School. Eravamo rimasti parzialmente delusi dal suo precedente lungometraggio, Last Days, ma adesso, il regista del Kentucky si confronta con il mondo degli skaters in una miscela stilistica, a lui assolutamente congeniale, di fiction e documentario, tornando anche ad esplorare, dopo il tributo a Kurt Cobain del 2005, il mondo degli adolescenti. Scelta questa che ben si adatta al suo sguardo tanto invasivo quanto ribelle ad ogni retorica, sia essa concettuale che espressiva.
Paranoid Park é il parco di Portland (e per certi versi il film riporta alla memoria certe atmosfere evocate da Chuck Palahniuk nel suo Portland Souvenir), rifugio degli skaters più esperti. Ed è in un pomeriggio qualunque che, da questo incrocio di rampe e scivoli, Alex, il protagonista, vedrà la propria vita prendere una piega drammaticamente inaspettata. L’involontario omicidio di una guardia di sicurezza lo porterà a chiudersi in un silenzio di espiazione che Van Sant racconta con una leggerezza quasi lirica. Il film ripercorre, tra flashback pienamente risolti e repentini ritorni al presente narrativo, le ansie ed i rimorsi che, da quella sera, diverranno sue abituali compagne, abbandonate solo alla fine, in un rogo dal sapore liberatorio, che pare voglia mettere per sempre la parola fine sull’accaduto.
Van Sant conosce i privilegi permessi ai registi sopra la media e si concede più volte il lusso di giocare a nascondino con la traccia narrativa principale rendendo naturale, così, l’emergere di numerosi sottotesti; la stessa moltitudine di sguardi e di tematiche si incontrano/scontrano spesso nei suoi film. Da subito è evidente la voglia di allargare il proprio sguardo, e quello del suo mezzo, a tutto ciò che di collaterale può anche solo lambire lo spunto del romanzo da cui il film prende piede. Visivamente sembra impegnarsi a farlo abbandonandosi al movimento ora ondeggiante ora fulmineo degli skate, seguendo direzioni sinuose e circolari, quasi del tutto spontanee. Ma è tale la bellezza di alcune sequenze, che immediatamente si percepisce come l’invisibilità - o presunta tale - della macchina da presa sia solo fittizia, celando, in realtà, una regia fortemente preordinata. La scelta di girare le evoluzioni degli skaters (alcuni filmati sono originali e provengono da vecchie videocassette) in Super8, è già di per sé una scelta stilistica che dichiara la comunione dei due formati (l’altro è il consueto 35mm) e funziona bene, grazie anche alla fotografia di Chris Doyle, storico collaboratore di Wong Kar Wai, qui alle prese con un modo di fare cinema sicuramente più riflessivo, meno impetuoso e violento per colore, movimento e luce, di quello del grande regista di Hong-Kong. È la sua abilità nel manipolare la luce a rendere gli attimi di sospensione, lunghi passaggi interiori, monologhi silenziosi del protagonista .
I volti dei personaggi divengono proprietà di Van Sant. Solo lui è in grado di sottolineare lineamenti neoclassici con il semplice movimento della macchina da presa. Non è un caso che di tutti i suoi film, spesso a rimanere in mente, siano proprio un primo piano o un dettaglio del viso.
(Paranoid Park); Regia, soggetto e sceneggiatura: Gus Van Sant;; fotografia: Christopher Doyle; montaggio: Gus Van Sant; suono: Leslie Shatz; interpreti: Gabe Nevins (Alex), Taylor Momsen (Jennifer), Jake Miller (Jared); produzione: MK2; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, USA 2007; durata: 85’