Among Women - Festival dei Popoli

Kim Brand, giovane regista olandese, torna nel villaggio dello Zambia dove aveva svolto un laboratorio universitario, per assistere all’esclusiva cerimonia di iniziazione al matrimonio, riservata alle giovani donne. Un rituale che segna il passaggio all’età adulta, in cui s’impara il sesso a passi di danza e se ne parla senza vergogna, fino all’atto finale della cerimonia: lo sgozzamento di una gallina, simbolo della deflorazione e insieme utile lezione di economia domestica. Una cerimonia tanto esclusiva che il film non può essere proiettato nello Zambia né in nessun altro paese africano, per tenerlo al riparo dal pubblico maschile.
La sensazione netta è quella di una grande lezione di civiltà, nonostante gli innegabili segnali di arretratezza materiale e aspetti della propria vita che le protagoniste vogliono cambiare, come i casi di violenza subita dal proprio marito, del resto tristemente frequenti anche nei Paesi più avanzati. D’altro canto, sottolinea la regista, «anche noi siamo pieni di regole di cui non siamo consapevoli e quelle donne sono molto inserite in un gruppo sociale forte, cosa che sfugge alla nostra società».
Girato in sei settimane (due di ricerche e quattro di riprese), Among Women ci offre l’occasione, purtroppo rara, di vedere un gruppo di donne solido e coeso, per le quali la libertà - ci insegnano - è un concetto diverso dal nostro, ma non per questo sbagliato.
Un’occasione unica per Kim Brand di avvicinare e, seppure per un breve tratto, far parte di quell’élite nella quale tutte le donne del villaggio aspirano a entrare, ma - ci spiega - questo comporta dei costi che ne implicano l’esclusività. La regista ha messo in scena anche sé stessa nel film, nel tentativo solo in parte riuscito di rifuggire l’esotismo in cui un documentario a carattere antropologico incentrato su un rituale tribale, rischiava di scadere. L’affermazione della Brand di essere stata invitata dalle stesse donne del villaggio ad assistere alla loro cerimonia, desta infatti il sospetto che si tratti di uno spettacolo messo in scena ad hoc.
Tra le protagoniste, riprese con un uso misurato della macchina a mano, spicca una donna che funge anche da interprete. Non è tanto la conoscenza dell’inglese a distinguerla, quanto piuttosto la sua condizione: nubile e dal carattere forte, dimostra una consapevolezza della propria cultura e delle tradizioni locali che ne fanno il veicolo ideale per la regista e per noi, per comprendere e accettare quel concetto di libertà tanto distante dal nostro, dove la donna trova ed esaurisce la propria felicità nel soddisfare il marito.
La giovane cineasta olandese, se durante la danza rituale di iniziazione al sesso e nelle conversazioni sull’argomento si è sentita più libera - laddove in Olanda, dice, parlarne ha più l’aria di essere un atteggiamento fintamente avanguardistico e disinvolto che la realtà - altri aspetti di quella civiltà, le sue innumerevoli regole, il servilismo nei confronti dell’uomo, segnano ancora un confine netto fra le due culture.
In un’epoca in cui il femminicidio è una realtà tristemente frequente anche nei Paesi apparentemente più progrediti e nonostante l’evidente fascinazione un po’ naif per la cultura con cui si confronta, che la cerimonia sia o meno genuina, la Brand ha il merito di smontare la nostra illusione di vivere in una società libera e avanzata, mettendoci allo specchio con un’altra, uguale e contraria alla nostra.
(Onder Vrouwen) Regia: Kim Brand; fotografia: Evelien van der Molen; montaggio: Joël Hielckert; produzione: Human; origine: Paesi Bassi; durata: 51’.
