AMORFU

Fin dal titolo è impossibile prescindere dalla citazione imbarazzata del capolavoro di Jacques Rivette. Quel bellissimo Amour fou del 1969, lungo più di quattro ore, sospeso tra cinema e teatro, tra finzione e realtà, realizzato in piena libertà con gli attori. Accostare i due film non è facile e forse non ha senso. Il dibattito rivoluzionario tra Rivette, Rohmer e Godard, per citarne solo alcuni, nel bisogno di un cinema libero e nuovo, non sopravvive, oggi, che in chiave post moderna. Cosa rimane dunque a quegli autori, interessati al mélo o alla storia d’amore, per non cadere nello stagno del manierismo? Sincerità, intelligenza e sensibilità. Un’onesta capacità, se non altro, di creare coinvolgimento emotivo. Emanuela Piovano (Le rose blu, 1989, L’aria in testa, 1992, Le complici, 1998) racconta un amore sofferto tra due personalità complesse. Lui istituzionalmente pazzo; lei abbandonata a una follia d’amor tragica, dopo l’addio a una salute mentale più ufficiale che propria. Del resto Amorfù è l’evocazione di un lontano e lirico dolore, sepolto in un passato remoto che lo universalizza e rende archetipo. Il tutto sotto l’effetto della più pericolosa delle deformazioni professionali: quella tra medico e paziente. I due protagonisti sono del gruppo volti nuovi del cinema italiano: lui è Ignazio Oliva, con gli occhi grandi e una magrezza indifesa; lei è la Sonia Bergamasco border-line e tutto istinto già ammirata ne La meglio gioventù. Ma al di là della bravura dei due giovani e di un ambiguo rimando al grande cinema che fu, quanto riesce la regista torinese a coinvolgerci, metterci in gioco e sorprenderci? Non molto, dovendo passare attraverso personaggi che respirano poco, non macchiano e ci guardano stupiti in primi piani dall’effetto flou. Lui ce la fa senza una ragione precisa e lei senza alcuna causa credibile naufraga professionalmente e affettivamente. Non bastano le onde del destino a giustificare percorsi al contrario dove l’incontro amoroso è il momentaneo punto d’equilibrio che separa due malesseri. L’amore è una gabbia momentanea e stupefacente, che riesce solo provvisoriamente a placare il conflitto esistenziale. Di questo, tuttavia, la Piovano non lascia intendere nulla. Nei dialoghi non c’è frase che ci aiuti, se non ad amare, almeno a capire. Nè la costruzione della storia ci mette davanti ad episodi che chiariscano il perché di possessioni claustrofobiche e sorprendenti abbandoni. La regia è virtuosa ma va per conto suo, con movimenti di macchina e inquadrature meditate. La strada che dall’amore conduce alla solitudine e alla morte si interrompe con un finale un po’ happy e un po’ aperto che lascia di nuovo spaesato quello spettatore che ha seguito senza fatica una storia con più carta che carne.
[ottobre 2003]
regia: Emanuela Piovano, sceneggiatura: Massimo Felisanti, Emanuela Piovano, fotografia: Alessio Gelsini Torresi, montaggio: Paolo Benassi, musica: Gianluca Podio, interpreti: Sonia Bergamasco, Ignazio Oliva, origine: Italia 2003, durata: 87’
