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Pubblicato il 30 giugno 2008 da Matteo Botrugno


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Cos’è la giustizia? Cosa la libertà? E cosa il dubbio? Partendo da queste terrificanti e vacue domande, Nikita Mikhalkov adotta come spunto di partenza La parola ai giurati di Sidney Lumet (trascendendo, però, il concetto classico di remake), per percorrere un duplice viaggio: attraverso i meandri della coscienza umana da una parte e nella Russia di ieri, e di oggi, dall’altra.
Dodici giurati vengono chiusi in una palestra (il salone dove avrebbero dovuto riunirsi risulta inagibile) all’interno della quale dovranno formulare un verdetto nei confronti di un ragazzo ceceno accusato di aver ucciso il padre. L’impresa sembrerebbe facile: i giurati mostrano, in prima battuta, un parere unanime. Uno di loro, però, voterà per la non colpevolezza. Da quel momento in poi inizierà un’indagine alternativa, volta al tentativo di dimostrare l’innocenza del ragazzo.
Una sinossi così risicata non può ovviamente rendere l’idea del film nel suo complesso, in cui il regista russo riesce a recuperare l’ispirazione di una delle sue opere migliori, Partitura incompiuta per pianola meccanica. In quel lavoro un gruppo di persone metteva a nudo la propria spiritualità all’interno di uno sconfortante orizzonte, solo apparentemente sereno. Le passioni, i vizi, i grandi ideali venivano dibattuti nel contesto di un inizio ’900 già carico di dolore e decadenza. Svelare l’essenza del presente tramite la forza del passato, quindi: di questo si tratta. Stavolta Mikhalkov, prendendo come punto di riferimento il senso della parola "giustizia", riesce ad approfondire il significato dei nostri tempi facendo leva sulla forza stessa del presente.
Il titolo internaizonale del film è identico a quello del film di Lumet (e relativo remake di Friedkin): 12 angry men, dodici uomini arrabbiati. Da questo punto di vista, diviene più semplice comprendere come la chiave di ricerca tentata dal cineasta russo sia incentrata sul fatto che i giurati, tenuti ad applicare una legge astratta e non interiorizzabile, assumono la posizione difensiva della condanna, celando inizialmente la loro stessa "umanità".
La possibilità di giudicare pone l’essere umano al di sopra della facoltà di saper guardare oltre il pregiudizio, il razzismo e, in particolare, al di là di quella rabbia sepolta in una prigione di carne. L’uomo fa riferimento ad una legge che non solo non applica, ma che addirittura non conosce. La parola "legge" perde addirittura il suo senso, percorrendo i sentieri della profonda spiritualità russa. La giustizia non viene più applicata tramite una legge senza più alcun valore, ma grazie al coraggio del recupero di ciò che non può essere tolto ed imposto ad un essere umano.

Qualcuno potrebbe confondere "pietà" con "pietismo", "speranza" con "buonismo". 12 è un lavoro invece carico soprattutto di poesia, quella stessa poesia che, nella tradizione del cinema russo, da Tarkovskij a Sokurov, diviene melodia della coscienza, fonte di verità: come nel caso del cinguettare di un uccellino intrappolato, per citare uno dei simbolismi più presenti dell’opera. La libertà non risiede, dunque, nel giudizio, ma nella forza propria alla presa di coscienza che, prendersi il diritto di scegliere della libertà altrui, non porta a nulla di buono. Rendere liberi gli altri significa lasciar loro la possibilità di scegliere.
L’opera di Mikhalkov non è solo lo specchio di una coscienza stretta dalle catene della rabbia e della diffidenza. 12 è un film in cui i personaggi sono il simbolo di una società da una parte ancora ancorata ad un passato non superato e, dall’altra, proiettata verso un futuro incerto. Cosa ne è, difatti, del futuro, se il presente si basa sull’inganno, sull’oppressione, sulla guerra?
Si torna a parlare in modo critico della situazione in Cecenia, anche se in maniera funzionale al racconto cinematografico. Dopo le accuse della giornalista Anna Politkovskaja e, ultimamente, del Sokurov di Aleksandra, anche Mikhalkov prende come spunto narrativo la guerra in Cecenia, per parlare del presente di una Russia in cui alcuni giurati devono applicare una legge che in fondo non esiste, se non all’apparenza. Il cineasta russo lascia aperta la porta alla speranza. Il nodo in gola che però impedisce ad uno dei dodici uomini di pronunciare la parola "Russia", è ciò che strozza anche quell’illusione, che si riesce comunque, nonostante tutto, ancora ad intravedere.
Malgrado il film sia stato girato quasi esclusivamente in una stanza, il ritmo rimane sempre sostenuto. Mikhalkov fa affidamento su un valido soggetto e su una sceneggiatura sottile e attenta a ricercare i giusti equilibri. Come una sinfonia, il lavoro è stato suddiviso in immaginari movimenti, in cui c’è spazio per il riso e per il dolore, per la speranza e per la rinuncia, per la verità e per l’ipocrisia.
Struggenti storie personali si incastrano in grotteschi siparietti, flashback alla ricerca di una poetica verità vengono alternati a trovate brillanti ed eleganti. 12 non rappresenta solo la vita stessa nei suoi momenti, nelle sue fasi più cruciali. E’ un grido d’aiuto, un barlume di speranza, la consapevolezza di una tragedia presente. In una parola sola: russo.


CAST & CREDITS

(12 razgnevannyh muzhchin) Regia: Nikita Mikhalkov; sceneggiatura: Nikita Mikhalkov, Vladimir Moiseyenko, Aleksandr Novototsky; fotografia: Vladislav Opelvants; interpreti: Nikita Mikhalkov, Sergey Makovezkij, Mikhail Yefremov, Sergei Garmash; musiche: Eduard Artemyey; produzione: TriTe; origine: Russia 2007; durata: 153’


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