W.

Dopo il gran rifiuto, o presunto tale, del Festival di Roma (la verità come spesso capita nel nostro paese probabilmente non la conosceremo mai) Oliver Stone sbarca in Italia con il suo W., biografia ampiamente non autorizzata dell’uscente Presidente degli Stati Uniti. Nel 1995 stessa sorte era toccata a Nixon. Il ritratto che il regista americano faceva di uno dei più controversi Presidenti della storia a stelle e strisce non poteva certo dirsi lusinghiero ma il personaggio, cui ricordiamo prestava il volto un sempre straordinario Anthony Hopkins, possedeva una dimensione tragica, di greca memoria, combattuto dall’ansia del consenso, dilaniato dai dubbi e dalle incertezze, sepolto, infine, da un potere mai saputo gestire pienamente. Nulla di tutto questo è riferibile, restando al film, alla figura di George W. Bush Junior.
Josh Brolin porta sullo schermo un uomo mai cresciuto, costretto da subito e per tutta la vita a fare i conti con una figura paterna dall’ombra troppo pesante per essere schiacciata, con un fratello brillante, con una serie di insuccessi professionali che ne scandiscono l’intera esistenza. Presidente, dunque, quasi per caso, per prendersi una vendetta nei confronti di chi in lui non aveva mai creduto. E quest’uomo povero di qualità di spirito e morali si trova improvvisamente a fare i conti con una delle crisi più grandi che la sua nazione, e di conseguenza il mondo intero, abbia mai dovuto affrontare.
Stone naviga tra continui flashback. Gli anni ’60, ’70 e ’80 raccontano la crescita, i problemi con l’alcool e le droghe, i primi timidi tentativi politici e l’incontro con la futura moglie. Il presente mostrato è quello che porta alla guerra preventiva, all’attacco all’Iraq in nome di quelle famose “armi di distruzione di massa” che ancora oggi si cercano affannosamente tra le dune del deserto. Il George capo supremo della nazione sembra ancora essere quel giovane texano inconcludente ed insicuro, facilmente trascinabile da slogan e dalla voglia di risolvere ogni sfida come su un campo di baseball (prima della carriera politica, da comproprietario dei Texas Rangers, uno dei più grandi sogni del giovane Bush era quello di governare la lega professionistica), incline alle scelte drastiche solo per poter affermare, a voce alta, le proprie presunte capacità decisionali. Così, nella stanza ovale come in tutti gli altri secreti spazi della Casa Bianca, Condoleezza Rice e i vari Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Karl Rove e Colin Powell (l’unico a non sprofondare del tutto negli abissi di un giudizio completamente negativo) decidono i destini del mondo in attesa di coniare il motto più convincente, quello che possa stuzzicare la mente del Presidente e portarlo verso la decisione sperata.
“La storia che racconto in questo film è potuta accadere perché erroneamente si è deciso di sottovalutare quest’uomo”. Non c’è tenerezza da parte del regista nel ritratto che compie di Bush. Feroce è l’ironia almeno quanto amara appare la fine politica del Presidente, incapace di tenere testa ad una conferenza stampa, rimasto privato di tutto quel consenso che un’America spaventata gli aveva tributato nel 2002. Stone è autore che si può amare per mille ragioni o detestare per molte di più. Gli si può attribuire una troppo facile inclinazione al retorico o al didascalico ma difficilmente le sue pellicole non provocano reazioni. Alcune sono oggettivamente poco riuscite (World Trade Center, per non andare troppo indietro, ne è un chiaro esempio), altre lasciano interdetti per il senso di incompiutezza (Alexander), altre ancora però rivestono un ruolo importante in ottica cinematografica e politica (e questo non deve essere taciuto). Si pensi a JFK, a Natural Born Killers, a Platoon più che a Nato il quattro Luglio, e ancora a Talk Radio o a Ogni maledetta domenica. Pellicole che segnano un passaggio, sia esso linguistico ed ontologico alla natura del mezzo che legato alla società ed alla cultura mediatica.
W. non sarà ricordato come uno dei lavori migliori di Stone. Pur ripresentando nelle sequenze meno patetiche e più inclini alla cronaca (quelle da sempre più intimamente vicine allo stile del regista) la forza delle sue opere più importanti, il film risente di un’eccessiva prolissità, si perde nel sottolineare passaggi che non avrebbero bisogno di ulteriore enfatizzazione. Il montaggio solo in certi momenti (gli inserti storici sono i migliori) sorregge l’uso incessante di flashback che appesantiscono, troppo spesso, il resto della narrazione. Lucido, per quanto forzatamente parossistico, invece il lavoro fatto su tutti i personaggi. E se la politica oggi è divenuta davvero un teatrino, le marionette che Stone affida allo schermo strappano un sorriso, celando un profondo retrogusto amaro per noi ed un violento senso di inadeguatezza per loro. Al riaccendersi delle luci in sala abbandoniamo la bandiera a stelle e strisce per tornare al cospetto del tricolore con la spiacevole sensazione che la storia cui abbiamo appena assistito, personaggi inclusi, sia "tremendamente vicina" ("molto simile" per usare le stesse parole del regista) a quella che domina "le italiche sponde".
(W.); Regia: Oliver Stone; sceneggiatura: Stamley Weiser; fotografia: Phedon Papamichael; montaggio: Julie Monroe; musica: Paul Cantelon; interpreti: Josh Brolin (George W Bush), Elizabeth Banks (Laura Bush), James Cromwell (George Herbert Walker Bush), Ellen Burstyn (Barbara Bush), Scott Glenn (Donald Rumsfeld), Thandie Newton (Condoleezza Rice), Richard Dreyfuss (Dick Cheney), Jeffrey Wright (Colin Powell); produzione: Emperor Motion Pictures, Global Entertainment Group, Millbrook Pictures, Onda Entertainment, QED International; distribuzione: QED International; origine: USA; durata: 128’
