Baciami ancora
Non basta avere una buona mano per fare un buon film. Non basta quando quel film è estremamente parlato, realistico e prosaico. Quando vuole raccontare la società alla società attraverso il quotidiano di esistenze comuni che ambiscono ad essere specchio per un pubblico italiano popolare e non cinefilo.
Non solo in questo caso, ma soprattutto in questo caso, è necessario prestare molta cura alla storia, e molta attenzione alle sfumature e alla profondità dei personaggi, alla freschezza e alla verosimiglianza non solo delle loro parole, ma anche dei tempi e dei modi in cui queste vengono espresse. In Baciami ancora (che sta aggredendo il paese con 600 copie), al di là di una sceneggiatura magrolina affollata di figure esageratamente ed eternamente disperate, di scene madri che pressano una sull’altra, di continue tempeste esistenziali e relazionali, prima di un’improvvisa, inaspettata, artificiosa e per certi versi ingiustificata quiete finale (l’attimo di respiro prima di una nuova tormenta che magari ci tocchi tra altri dieci anni), non funziona più il rapporto tra l’agilità di quella mano fluida ed un intreccio troppo leggero, tanto strillato quanto superficiale, in alcuni momenti pericolosamente appiattito verso il moccianismo, in altri sull’orlo di un imbarazzante ridicolo. C’è stato, probabilmente, un errore di strategia alla base di questo atteso ed attendibile sequel: il rispetto esagerato per la lettera dell’originale, per la forma del primogenito fortunato da replicare, assai più curata rispetto alla sostanza del racconto attuale, alla forza dei personaggi di oggi, quarantenni meno credibili dei trentenni di dieci anni fa. Sempre borghesi, sempre confusi, sempre incandescenti, perché sensibili e in cerca della verità, può darsi, ma anche perché ostinati a credere che nella vita si possa vivere senza rinunce, senza sofferenza, in un eterno infantile piacere e desiderio. E se a trent’anni è possibile avere ancora tutto il tempo per sbattere la testa contro la vita, per essere in qualche modo da questa domati, è presumibile che dieci anni dopo si siano fatti parecchi passi avanti, e che non si debba relegare l’esito della formazione agli ultimi posticci attimi di film. Una maggiore caratterizzazione delle figure umane, in sostanza, perché no, anche calata in nuova forma che meglio avrebbe saputo sostenere questa caratterizzazione, avrebbe dato una grossa mano a questo film, e magari ci avrebbe fatto parlare in maniera nuova di Gabriele Muccino, svincolandolo da quel suo film d’amore così ingombrante e a tutt’oggi decisivo, ancora croce e delizia del regista pratino che continua a raccontare, almeno in Italia, quel suo piccolo mondo moderno che conosce tanto bene. Questo disequilibrio tra forma e contenuto, invece, rende Baciami ancora la copia stanca e sbiadita di un film di successo, discusso e discutibile, un po’ autoriale e molto commerciale ma non privo di una certa importanza e originalità. Una pellicola, L’ultimo bacio, che in ogni caso ha segnato la storia del cinema italiano 2000/2009: 1) per come ha inciso sul pubblico; 2) per il solco tematico che ha scavato a tanti film venuti dopo; 3) per la generazione di attori che ha lanciato.
Sembra esagerata, in Baciami ancora, la fiducia nello stile frenetico, vistosissimo e rumoroso da L’ultimo bacio: lacrime e baci, appunto, bagnati da una pioggia che cade col sole, dopo dieci anni in cui l’originale non ci era mai mancato, ma in cui non ci eravamo nemmeno dimenticati del suo passaggio. Oggi quella forma vistosa torna per avvolgere un film di scarsa autenticità e legato a stereotipi comportamentali risaputi e impacchettati. Lo stile straripa perché i contenuti non fanno da argine e il film scorre come un corpo mezzo morto acconciato con l’abito usato e vistoso della prima volta. Passa col suo vivere troppo problematico e doloroso, col suo carico di tira e molla amorosi vissuti in angoli suggestivi di una Roma affascinante che però non hanno nessun raccordo tra loro. Baciami ancora è di nuovo un film di litigate, di nessun problema legato ai soldi ed al lavoro, di fughe e corse, di indecisione e paura, di pianti e amplessi fugaci vissuti senza gioia, di confusione totale, di crisi nera, insomma. E poi, in un’atmosfera quasi mistica, ecco un raggio di luce e di speranza quando tutto sembrava perduto, quando a terra è ancora tutto fradicio di pioggia. Come quando eravamo bambini e dopo un grande pianto ci sentivamo d’improvviso molto meglio. Dopo che i genitori ci avevano picchiati perché i nostri capricci li avevano stancati e da quella intima rassegnazione avevamo trovato un inspiegabile sollievo. In questa disparità, equivoco tra forma e contenuto si annacquano anche le idee ed i messaggi proposti dal regista. Che comunque ci sono ma nella loro esilità espressiva denunciano i limiti autoriali, non registici, di Gabriele Muccino. Che in sostanza sostiene che che se a trent’anni si può ancora pensare che la felicità stia sempre da un’altra parte, in un altrove immaginario da seguire a testa bassa e con dolore, comunque sia, anche se a due passi da noi c’è quasi tutto, a quaranta bisogna ammettere per forza che come la giri la giri, altro non conviene pretendere dalla vita che la vicinanza e la presenza degli affetti primari: la persona amata e i figli. Tutto qui, e si poteva dirlo anche in un altro modo, magari anche in collaborazione con altri sceneggiatori.
(Id.); Regia: Gabriele Muccino, sceneggiatura: Gabriele Muccino; montaggio: Caludio Di Mauro; fotografia: Arnaldo Catinari; interpreti: Pierfrancesco Favino, Giorgio Pasotti, Claudio Santamaria, Primo Reggiani, Vittoria Puccini, Marco Cocci, Stefano Accorsi, Adriano Giannini, Valeria Bruni Tedeschi; produzione: Fandango, Medusa; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2009; durata: 135’