Berlino 2009 - Fig Trees - Panorama

Documentari, mockumentary, docu-fiction. Spesso, nell’ambito dei grandi festival, viene lasciato spazio a diverse tipologie di racconti della realtà che vanno al di là del classico cinema di finzione. Con l’ultimo lavoro dell’artista tout court John Greyson diviene necessaria una riflessione molto più complessa, specialmente dal punto di vista del linguaggio. La controversia che coinvolge diversi documentari è indubbiamente quella dello stile. Alcune opere fanno perno su un’inchiesta interessante o su necessari approfondimenti ma, spesso e volentieri, il lavoro di regia o la qualità stessa delle immagini sono estremamente povere. Nel caso di Fig Trees, invece, non vengono solo toccati temi ultimamente trascurati dai media, ma viene anche dato un valore all’estetica stessa del film documentario.
Il lavoro di Greyson è da una parte un omaggio al canadese Tim McCaskell e al sudafricano Zackie Achmat, da sempre attivi contro i medicinali che dovrebbero contenere la degenerazione fisica dei malati di AIDS e, dall’altra, un’accusa sui generis alla case farmaceutiche e ai governi che, per ragioni economiche e di pubblica facciata, emarginano i malati. Al di là dell’intento di sensibilizzazione, Fig Trees è anche e soprattutto un prodotto artistico. Se Greyson, da sempre impegnato in battaglie contro la discriminazione dei gay e a favore dei progetti di prevenzione di malattie trasmissibili per vie sessuali, tende a smuovere l’opinione pubblica tramite il messaggio dei due attivisti citati in precedenza, è pur vero che il tutto viene confezionato in modo assolutamente originale rispetto agli standard documentaristici.
Il cineasta canadese (anche sceneggiatore, scrittore e videoartista), si maschera da compositore e dirige una vera e propria opera lirica. Con ciò però non vogliamo metaforicamente osservare Fig trees come un’opera dal respiro sinfonico. La musica c’è eccome, e pervade ogni fotogramma della pellicola. Sin dall’inizio, in cui vengono spiegati i rapporti fondamentali alla base dell’armonia moderna, salta subito all’occhio lo spirito del documentario. Quando in seguito diversi cantanti si alternano in arie liriche di stampo prettamente contemporaneo (riprese dall’opera di Gertrude Stein, Four Saints in Three Acts) che trattano l’argomento con libere associazioni di idee e surreale umorismo, ci si rende definitivamente conto che le strade dell’approccio al documentario possono davvero essere slegate da approssimazione e canoni obsoleti a cui ultimamente ci stiamo troppo assuefacendo.
L’immenso lavoro di regia è evidenziato dalle idee, ora geniali ora trash, che permeano il film. Tra split screen e stop motion, giochi di parole e sequenze in bilico fra opera e musical, interviste e ricostruzioni, storie di martiri moderni e santi obsoleti, Greyson modella la realtà con gli strumenti propri dell’arte, senza compromettere messaggi, omaggi ed accuse. Sicuramente uno dei lavori migliori presentati nella sezione Panorama, che ha l’unico neo di avere un minutaggio leggermente eccessivo. Ma questo aspetto, data la qualità e la genialità di questa sorta di wagneriana opera d’arte totale, può passare tranquillamente in secondo piano.
(Id.) Regia e sceneggiatura: John Greyson; fotografia: Ali Kazimi, Jesse Rosensweet; montaggio: Jared Raab; musica: David Wall; interpreti: Van Abrahams (Zackie Achmat), David Wall (Tim McCaskell), Deborah Overes (Gertrude Stein), Ezra Perlman (Sankt Martin),; produzione: Damion Nurse, Elle Nanes; origine: Canada; durata: 100’.
