Berlino 2009 - Unmistaken child
Secondo la religione buddhista, solo ai Lama è concesso di reincarnarsi sicuramente in un essere umano. Alla morte del venerato Lama Konchog, il suo allievo Tenzin Zopa viene incaricato di trovare il bambino che costituisce la sua reincarnazione: i segni della sua presenza sono indicati dagli astri, dalle immagini che formano le ceneri del defunto e dalla presenza di perle tra queste. E i segni portano Tenzin Zopa in una valle dell’Hymalaya peraltro non lontana dal suo paese d’origine, dove ha conosciuto a sette anni il Lama Konchog e sfidando la volontà della sua famiglia è diventato il suo discepolo prediletto.
Con i pochi strumenti a disposizione gira dunque per i villaggi alla ricerca di bambini con caratteristiche particolari, che possano essere interpretate come i segni della sua predestinazione: il monaco, incaricato dal Dalai Lama in persona, è angosciato dal suo compito e schiacciato dalla responsabilità che grava sulle sue spalle. Molte delle famiglie che va a visitare, peraltro, raccontano storie piuttosto improbabili, circa l’eccezionalità della propria prole, mentre lui deve avere la certezza assoluta senza possibilità di errore, e senza neanche troppo tempo a disposizione.
Fino a quando incontra un bambino, che, dicono, da tempo e di sua iniziativa, annaffia l’albero di melo che era del Lama Konchog e rifiuta di separarsi dal rosario con cui Tenzin Zopa lo fa giocare. Un bambino di due anni dall’aria terribilmente seria, che accetta la presenza del monaco come la cosa più normale del mondo.
Girato dal documentarista israeliano Nati Baratz, dopo il suo incontro con Tenzin Zopa, Unmistaken Child è un’opera estremamente interessante sia dal punto di vista religioso che antropologico: oltre a rappresentare la vita e le regole dei monaci e ad approfondire il tema dei piccoli “predestinati” (che in alcuni casi il governo cinese non si è fatto scrupolo di rapire e nascondere), mostra la vita quotidiana e autentica negli sperduti villaggi dell’Hymalaya, limitandosi a seguire il passo lento di Tenzin Zopa, le sue soste, il suo bere ai ruscelli.
La calma del protagonista e la rappresentazione di una natura nè idilliaca nè matrigna, bensì “familiare” (nel senso proprio di esponente di una comunità) si scontrano però con la crudeltà insita nel suo compito di “ladro di bambini”: moderno orco, il monaco, dietro l’aura mistica della predestinazione, ha di fatto il compito di strappare il bambino alla sua famiglia, o meglio di convincerla della giustezza di affidarlo ad un monastero, probabilmente senza rivederlo mai più. Per questo deve cercare dei bambini di non più di un anno e mezzo.
Riconosciuto dal Dalai Lama in persona dopo una serie di prove, il bambino viene riverito e venerato da una serie infinita di fedeli, che benedice senza sosta e con una serietà terribile fino a crollare letteralmente di stanchezza. Compreso nel suo ruolo, quando scopre che deve abbandonare per sempre la sua famiglia, grida la sua disperazione “di non avere più amici”. Chissà se dimenticherà presto e sarà felice in monastero, quello che è certo è che anche nella religione più pacifica (il volto stesso di Tenzin Zopa durante il film è di una gioiosa serenità tale da comunicare un sentimento immediato di empatia nello spettatore) c’è sempre una piccola goccia di crudeltà.
Regia: Nati Baratz; sceneggiatura: Nati Baratz, Ilil Alexander, Ron Goldman; fotografia: Yaron Orbach; montaggio: Ron Goldman; musica: Cyril Morin; interpreti: Tenzin Zopa, Dalai Lama; produzione: Samsara Films/Alma Films; origine: Israele, 2008; durata: 102’