Berlino 2011 - Intervista a Chen Kaige, regista di Sacrifice

Chen Kaige incontra i giornalisti a Berlino accompagnato dal giovanissimo attore del suo film Sacrifice – William Wang - che va in giro a offrire tazze di caffè a tutti i presenti, creando un clima simpatico e un po’ surreale. Primo regista cinese a vincere la palma d’oro a Cannes con il suo Addio mia concubina, Chen Kaige presenta il suo ultimo lavoro nella sezione Berlinale Special.
Non trova che la storia del suo film abbia dei contenuti vagamente biblici? Non ho assolutamente pensato a questo girando Sacrifice; per me la Bibbia è solo ottima letteratura, che ha peraltro alcuni contenuti in comune con la mitologia cinese. Anche noi abbiamo la leggenda del diluvio. Ho fatto il film perché amavo molto la storia originale, a cui ho apportato un solo cambiamento che però è molto importante, ed infatti è stato molto criticato da alcune persone. Nel resoconto degli eventi fatto da Sima Qian (il primo storico cinese) Cheng Ying sacrificava suo figlio di proposito per salvare l’ultimo sopravvissuto della dinastia nobiliare degli Zhao. Nel mio film invece il dottore è combattuto, e non vorrebbe sacrificare suo figlio. Per me era fondamentale fare questa scelta, in quanto penso che le vite di entrambi i bambini abbiano lo stesso valore. La storia raccontata nel mio film è stata infatti tradizionalmente manipolata dai governanti cinesi allo scopo di propagandare un idealismo molto forte. A noi manca il senso di come possa essere la vita individuale, dovremmo imparare a rispettare maggiormente le vite delle persone. Per questo sono stato molto colpito da un film come Salvate il soldato Ryan, in cui morivano in così tanti per salvare un solo uomo.
Quindi per lei è molto importante comunicare questo tipo di contenuti alla gente? Non sono un maestro, non ho niente da insegnare. Faccio solo ciò che penso sia giusto, e una delle mie preoccupazioni principali è la generazione nata dopo gli anni ’80: sono tutti figli unici che hanno perso ogni cognizione della nostra tradizione culturale. Per giunta, ogni volta che la Cina apre le porte al resto del mondo succede qualcosa di terribile: l’insofferenza verso il vecchio da cui veniamo contagiati ha fatto si ad esempio che Pechino venisse praticamente distrutta, rifatta da capo in maniera orribile.
In questo come in altri suoi film c’è una sorta di cultura dell’eroe. Mao disse che gli eroi non esistono, che è il popolo a creare la storia. Ma penso non credesse veramente a quello che diceva, penso che in fondo lui si sentisse un eroe. Io negli eroi tradizionali invece non ci credo per davvero, sono solo delle idee romantiche. Per me gli eroi sono le persone che sono state sconfitte. C’è sempre qualcuno che viene sconfitto dalla storia o dal fato, ed io sto sempre dalla parte dei perdenti come Cheng Ying.
Com’è girare film in Cina oggi? Io ho sempre cercato – e tuttora cerco -di fare del mio meglio per sviluppare il mio stile di regista. La vera difficoltà in questa ricerca artistica personale è che veniamo sempre spinti a fare il maggior incasso possibile al box office.
Cosa ne pensa del film presentato a Venezia, The Ditch, di Wang Bing, in cui vengono raccontati i campi di “rieducazione” del regime maoista? Io sto aspettando che venga il tempo in cui potremo fare tante cose che ad oggi non sono ancora possibili. Credo fermamente che quel tempo verrà, ma non è ancora giunto il momento in cui nel nostro paese si possono raccontare determinate storie. Ad esempio mi piacerebbe moltissimo fare un film sulla rivoluzione culturale, su ciò che accadde in quegli anni, ma ancora non è possibile in Cina confrontarsi con certi temi.
