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Berlino 2011 - Intervista a Lee Yoon-Ki, regista di Come Rain Come Shine

Pubblicato il 19 febbraio 2011 da Giovanna Branca


Berlino 2011 - Intervista a Lee Yoon-Ki, regista di Come Rain Come Shine

LeeYoon-Ki è nella capitale tedesca per presentare il suo ultimo film, in concorso alla Berlinale 2011: Come Rain Come Shine, tratto da un racconto e incentrato sulla separazione/non separazione di una giovane coppia di sposi coreani in una giornata di pioggia.

Come ha deciso che la short story The Cat that Can Never Come Back fosse un film potenziale? Ciò che mi ha interessato da subito è l’ambientazione della storia che si svolge tutta in interni, tutta in una casa, per via della pioggia. Anche quando i due protagonisti non sono in casa sono comunque in un interno, quello di una macchina. Questo meccanismo mi è sembrato molto interessante da trasporre al cinema. Girare un film in un solo luogo è molto difficile, ma ogni storia ha un’ambientazione che le è propria, e nel caso di Come Rain Come Shine questa era la scelta cinematografica più giusta.

Nel suo film ci sono pochissimi movimenti di macchina, e quasi tutti volti a mettere in risalto degli oggetti, dei piccoli particolari. Come mai? In realtà, ci sono molti più movimenti di macchina di ciò che appare. Volevo che il pubblico avesse la sensazione che la macchina da presa fosse ferma, anche se in realtà si muove – pur pianissimo – quasi costantemente. E’ come un ulteriore personaggio del film, sempre in movimento, anche se i suoi movimenti sono quasi impercettibili. Questo aiuta il pubblico anche ad avere la sensazione che la storia si svolga in tempo “reale”, dal primo pomeriggio al tramonto del sole. Per quanto riguarda gli oggetti, volevo dare vita ad un racconto che contenesse molti simboli: i piccoli particolari sono messi in risalto per stimolare la capacità del pubblico di immaginare il mondo all’interno del quale la narrazione si svolge.

Come ha lavorato con gli attori? Non sono il tipo di regista che da’ troppe indicazioni agli attori: ritengo che siano in grado di lavorare sui loro personaggi. Quando arrivano sul set parlo con loro e prendo moltissime idee da ciò che hanno “costruito” nell’interpretare il loro personaggio.

Nel suo film usa la luce e i colori in maniera molto parsimoniosa. Perché? L’assenza di luce esalta secondo me la solitudine e la disperazione dei due protagonisti, i colori semplici l’aridità della loro relazione.

Lei parla di disperazione, ma i personaggi sono sempre molto calmi e pacati per tutto il corso del film. Sembrano essere calmi e freddi, ma solo superficialmente. Questo fa si che ci si possa concentrare sulle loro emozioni, su ciò che avviene nella loro interiorità, e non sulle azioni fisiche. Limitare al massimo la gestualità e il “movimento” consente al pubblico di focalizzarsi su ciò che sono i loro sentimenti profondi. Sentimenti che hanno solo accidentalmente a che fare con l’amore, perché mi interessava raccontare la storia di una separazione. Avrebbero anche potuto essere fratello e sorella, è il trauma del dividersi che volevo concentrare nel mio film.

Che ruolo ha il gatto che porta scompiglio negli avvenimenti della giornata? Il gatto potrebbe essere un simbolo della storia: anche lui si sente perso, non sa dove andare. Inoltre, arriva nel momento di massima tensione tra i due personaggi, e consente loro di vedere la loro relazione da una diversa prospettiva. Ma potrebbe anche essere visto come un frutto dell’immaginazione: la fantasia di una coppia che sente che le cose potrebbero essere diverse.


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