Berlino 2011 - The Turin horse - Concorso

La pazzia di Nietzsche, come forse a molti è noto, fu scatenata definitivamente dalla vista di un vetturino che frustava il suo cavallo in una via di Torino ai primi del 1899. Del celebre filosofo, si sa che fine abbia fatto, del cavallo invece no.
Béla Tarr, regista ungherese di culto, passato alla storia soprattutto per le sette ore e mezzo di durata del suo Satantango (1994) , prende a pretesto questo famoso aneddoto per “una meticolosa ricostruzione della vita del vetturino, di sua figlia e del cavallo” (così il catalogo del festival). Difficile credere ad una tale versione dei fatti, anche se è lo stesso regista a darcela, ma non importa che il film sia ambientato nel nulla di un paesaggio ostile dove i personaggi parlano molto poco, ma comunque parlano ungherese. Facendo finta di credere alla versione ufficiale, seguiamo il ritorno del vetturino nella sua casa isolata (nella puszta?), battuta da un vento incessante e crudele, dove lo attende la figlia, cupa e silenziosa quanto lui. A ricondurlo in questa casa nel mezzo del nulla è la sua cavalla, protagonista della meravigliosa sequenza iniziale che vede la steadycam fare incredibili acrobazie, e che dopo questo viaggio decide di smettere di mangiare e di bere. Il fatto inizialmente non incide sulla routine di padre e figlia, scandita da una serie di eventi molto semplici ma minuziosi (la vestizione che la figlia fa del padre ogni mattina e ogni sera, l’acqua da prendere al pozzo davanti casa, la cottura delle patate che sembrano essere il loro unico cibo). Una ripetizione quasi identica, che i due osservano come un rito che ha perso il suo scopo originario ma rimane necessario per mantenersi vivi e non arrendersi alla morte che basterebbe pochissimo per far entrare insieme al vento e alla polvere dall’unica porta.
Presto però i tarli smettono di rodere il legno, un vicino entra in casa a chiedere della grappa e si lancia in un monologo dai contenuti decisamente nietzschiani, una piccola carovana di zingari beve l’acqua del pozzo e in cambio lascia alla figlia delle maledizioni (è la nostra acqua! È la nostra terra!) e un oscuro libretto di prescrizioni religiose. Ma l’acqua del pozzo si asciuga, il fuoco non si accende più e la luce improvvisamente scompare. La cavalla, digiuna, non può o non vule condurli verso la salvezza.
Ambientato in sei giorni, scanditi da altrettanti capitoli, conclusi dall’esplosione del buio, quindi in una sorta di creazione biblica all’incontrario, The Turin Horse potrebbe sembrare più improntato ad una valenza religiosa di quella che ha: la stessa enigmatica cavalla non possiede la santità e la pazienza ultraterrena dell’asino Balthazar di Bresson, non è una vittima, anzi si può dire che covi una sua segreta vendetta, e nessun accenno di spiritualità, nemmeno intesa come “fede dei semplici”, sfiora i due protagonisti. Nè sembra altrettanto convincente la metafora della disperata condizione umana, impotente di fronte al destino. Piuttosto si ha l’impressione di un sogno allucinato e cattivo, da cui non ci si riesce a liberare, accompagnato da cantilena ossessiva di archi come colonna sonora, le cui note sembrano essere le stesse del vento con cui incessantemente si alterna.
Girato come di consueto in bianco e nero, con una lunga serie di piani sequenze e di lentissime zoomate in avanti e indietro (per la splendida fotografia del suo abituale collaboratore Fred Kelemen, a sua volta regista geniale e disturbante), praticamente priva di dialoghi, la pellicola è prima di tutto un grande saggio di cinema che pur nel suo stile inconfondibile non può non far pensare a Tarkowski e sopratutto a Sokurov.
(The Turin horse); Regia: Béla Tarr; sceneggiatura: Béla Tarr, Laszlo Krasznahorkai; fotografia: Fred Kelemen; montaggio: Agnes Hranitzky; musica: Mihaly Vig; interpreti: Erika Bok, Janos Derzsi, Mihaly Kormos, Ricsi; produzione: T.T. Filmműhely; origine: Ungheria, Francia, Germania, Svizzera, USA, 2010; durata: 146’
