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Birdwatchers - La terra degli uomini rossi

Pubblicato il 8 settembre 2008 da Edoardo Zaccagnini


Birdwatchers - La terra degli uomini rossi

Già dal titolo incontriamo due universi opposti e inconciliabili: in italiano leggiamo La Terra degli uomini rossi; in inglese Birdwatchers, cioè quelli che si divertono a guardare gli uccelli. Abbiamo una guerra da una parte, persa in partenza, e dall’altra una vacanza esotica, frizzante e sicura come sicura è la nostra vita occidentale in giro per il mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi, a parte qualche terribile episodio che, certo, non modifica una verità generale.
Il film inizia quando la guerra, quella per il modello che il mondo avrebbe dovuto seguire, è finita da un pezzo. Da una parte la piscina, il fuoristrada, il telefono con l’auricolare e una serata a disquisire di fauna locale davanti a un ottimo bicchiere di vino, col pensiero agli affari del giorno dopo. Dall’altra le frecce e l’acqua da raccogliere in un fiume, le capanne di paglia e fango, il corpo nudo sulla terra madre. Che trema come tremava in Sicilia quando una famiglia proletaria di sessant’anni fa si ostinava a non capire come stavano andando le cose del pianeta.
Qui siamo nel Mato Grosso do Sul in un Brasile contemporaneo, vero e trasfigurato come trasfigurate e vere sono le battaglie dei singoli, dei piccoli di ogni tempo e luogo. E’ il 2008 e I fazendeiro conducono la loro esistenza ricca e annoiata. Possiedono campi di coltivazioni transgeniche che si perdono a vista d’occhio e trascorrono le serate in compagnia dei turisti venuti a guardare gli uccelli. Vivono nella foresta ma sono pieni di stanze eleganti, di terrazzi fioriti e di servitù indigena. Hanno la villa nascosta in mezzo a piante formidabili, sono severi, impegnati a macinare denaro e a gestire disordinate e sofferenti relazioni sentimentali.
Ai limiti delle loro proprietà, dall’altra parte di un’incredibile e vera barricata, cresce il disagio e il sacrificio degli indios che di quelle terre erano i legittimi abitanti. I primi, intesi come padroni, come stato contemporaneo, come ogni occidente possibile, hanno costretto i secondi in riserve senza scampo e senza vita. Questa gente vive senza altra prospettiva che non sia quella di andare a lavorare in condizioni di semi schiavitù nelle piantagioni di canna da zucchero, oppure come domestici, oppure ancora a cottimo, come precari senza alcun diritto, manovali e scarica merci come quelli che lasciano la loro terra d’Africa, d’Asia e d’Europa, per andare a fare da ultimi ai primi dell’Europa che comanda. Molti giovani Guarani-Kaiowà si suicidano perché stanno male: gli hanno tolto l’aria, l’acqua, il suolo, la tradizione, la storia, la cultura e li hanno messi come pesci, spigole, orate, tonni, insetti, tigri dentro vasche di lamiera e di quello che capita. Li hanno chiusi a chiave dentro il container per farli uscire tutte le volte che hanno voglia di vedere che come è che va e come è che deve andare il mondo. C’è una ribellione, nel film. A scatenarla è un suicidio che sprigiona la reazione di un leader, Nadio, e dello sciamano di ciò che rimane di un antico gruppo, i Guarani-Kaiowà. Quest’emigrazione verso un’impossibile e utopica libertà si accampa ai confini di una proprietà per reclamare la restituzione delle terre.

Due mondi contrapposti si fronteggiano con le armi che hanno: l’improbabile magia, la lancia, il costume da guerra e l’obbedienza semi cieca verso antichi insegnamenti che si perdono nel tempo da una parte, e l’attesa della risposta crudele a un’esagerazione dall’altra.
Un mondo è piccolo ed eroico, sensazionale e solamente in parte ingenuo, buon selvaggio solo per metà. Come a dire che siamo di fronte ad una minoranza intelligente, matura, completamente interna al presente. L’altro mondo è potente, silenzioso ed efficace in ogni gesto.
Scoppia una guerra prima fredda e metaforica, poi reale e schiacciante. La vince con poche parole e con un colpo di pistola il popolo dei padroni. I capitalisti sfruttatori la chiudono quando decidono di iniziarla, quando il pericolo rosso, inteso come pelle e come metafora rivoluzionaria, si avvicina esageratamente al loro profitto e al loro quotidiano. Ed è la storia di una realtà ma è anche una parabola universale, un realismo planetario e rimbalzabile per tutto il pianeta, di oggi e di ieri. Ed è anche un film sull’impeto della storia che continua a mangiare tutte le culture che non siano quelle del consumo e del capitalismo ultra selvaggio. Perché seppur ostili questi primitivi contemporanei non sono quelli dell’ultimo Malick né i Sioux di Balla coi lupi. Sono gente di oggi come lo sono gli zingari delle nostre città che, mentre ascoltano le prediche dei nonni e mantengono ossigenati i loro insegnamenti, desiderano le scarpe della Nike e si tagliano i capelli come i ragazzi che stanno sui muretti coi polpacci tatuati.

Lo scontro tra culture di Bechis è nel presente, col risultato chiaro sin dai primi minuti. Ma dove sta l’intima ragione di questo film girato in silenzio e concentrazione? Con una quantità più che accettabile di un cinema spesso e attento alle lezioni dei grandi maestri del passato? Sta nella fotografia di un’ultima folle battaglia che ci ricorda con quale forza il pianeta sta vivendo le sue scelte compiute ormai da tempo. Mentre questa tribù affascinante e triste combatte per difendere il suo ultimo orgoglio, i suoi soldati si avvicinano all’infinito accampamento nemico e ne rubano gli oggetti, gli strumenti e i simboli. Non smettono mai di girare intorno alla cultura avversaria, non cessano mai di studiarla.
A provare la "curiosità dell’altro" sono soprattutto i giovani ma non sono solo loro. Anche le donne del gruppo si muovono tra la tradizione ed il rispetto per le proprie idee, le proprie emozioni, le proprie volontà. Anche questi uomini superati dalla storia sentono l’energia delle luci e le magie contemporanee attirarli neanche troppo misteriosamente. La calamita è forte quasi quanto secoli di azioni ripetute puntualmente.

Non era facile per il regista di Garage Olimpo e di Hijos costruire in maniera realistica l’ultimo urlo dei Guarani-Kaiowà. E non era semplice nemmeno rappresentare non superficialmente le dinamiche feroci della cultura “vincente”.
L’attenzione per l’altro si ferma laddove subentra la necessità primaria della sopravvivenza. Per i ricchi è impossibile lasciare agli altri uno spazio necessario: il loro mondo ha bisogno di grandi aree da fruttare per non soccombere e di denaro continuo per sopravvivere avanzando. L’odio appartiene solo alla sconfitta dei poveri, per gli altri il vero nemico non è una tribù disgraziata e affascinante ma la propria cultura che non consente altro che la difesa del potere. Quella che per i Guaranà Kaiowa è una guerra disperata, per i fazendeiros non è altro che una scocciatura di sbrigare in attesa di altre guerre intestine be più lunghe e complesse. Per gli sconfitti rimane la voce che il regista gli regala, dopo un dolore infinito che sbarca al lido spaesato ed ha il suo giorno di riscatto per parlare al mondo.


CAST & CREDITS

Regia: Marco Bechis; Sceneggiatura: Marco Bechis, Luiz Bolognesi, Lara Fredmer; Montaggio: Joacopo Quadri; Fotografia: Helcio Alemao Nagamine; Musiche: brani di Domenico Zipoli (1688-1726); Interpreti: Indios non professionisti, Chiara Caselli, Claudio Santamaria; Produzione: Rai Cinema; Distribuzione: 01 distribution; Origine: Italia 2008; Durata: 108’; Web Info:sito ufficiale


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