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BORAT

Pubblicato il 2 marzo 2007 da Matteo Botrugno


BORAT

Kazakistan: ex repubblica sovietica a cavallo tra Europa ed Asia. Fino a poco tempo prima dell’uscita di Borat, questa nazione, indipendente dal 1991, non è mai stata al centro dell’attenzione dei media come altre ex repubbliche sovietiche. Prima di Borat per l’appunto. Il personaggio del reporter kazako creato dal britannico Sacha Baron Cohen ha subìto nel corso della propria vita diverse evoluzioni: dapprima era un reporter moldavo, poi albanese e solo successivamente è ‘diventato’ kazako. Il film è una summa degli sketch televisivi andati in onda su Channel 4 e su HBO all’interno del Da Ali G Show, e si presenta come documentario sulle differenze culturali tra Kazakistan e Stati Uniti.
Ovviamente si tratta di un mockumentary il cui titolo originale, nella versione italiana, viene tradotto senza errori e che, approssimativamente, dovrebbe suonare così: ’Borat - cose culturali imparate di America per fare beneficio gloriosa nazione di Kazakhstan’. Quello di Borat è il classico esempio di film in cui i costi di produzione sono inversamente proporzionali ai guadagni. Cos’è che sta determinando il successo del lavoro dell’istrionico Sacha Baron Cohen? Forse la comicità sboccata e politicamente scorretta? Le sue provocazioni e i suoi continui sfottò? Oppure le immancabili polemiche scatenate dall’antisemitismo, dall’omofobia e dalla misoginia che, secondo alcuni, pervaderebbero tutto il folle documentario?
E’ proprio la polemica che probabilmente ha determinato l’interesse nei confronti delle avventure del reporter kazako. Il mockumentary è spesso politicamente scorretto, ma la provocazione che porta avanti è ben diversa da quella che un giudizio troppo sommario potrebbe attribuirgli. Per quanto Borat sia una pellicola molto semplice e lineare, con tutte le caratteristiche di un lavoro low-budget e, soprattutto, che ha come base della sua comicità la forma tipo della gag televisiva e della candid-camera, è possibile intravedere un substrato di satira politica e sociale, nascosta e spesso sotterrata dall’apparente idiozia che la pervade.
Il film è stato accusato di avere caratteri antisemiti per via di alcune pesanti battute sugli ebrei, quando lo stesso Sacha Baron Cohen è ebreo. Borat chiede al suo istruttore di guida se con l’automobile sia possibile investire ed uccidere gli zingari, cosa che ha suscito numerose polemiche da parte delle comunità rom. Ma ascoltando attentamente la colonna sonora non si può non notare la celebre canzone composta da Goran Bregovic, Erdelezi, utilizzata ne Il tempo dei gitani di Emir Kusturica, che accompagna il viaggio del reporter, nomade in terra straniera. La misoginia e l’omofobia di fondo appaiono non solo come elementi su cui basare le varie gag, ma anche come atto d’accusa nei confronti del razzismo nascosto nella facciata del benpensante medio statunitense.
Gli Stati Uniti in Borat sono un’orgia confusa di falsità, di apparenze, di miti fasulli. La stessa Pamela Anderson è vista dall’ingenuo reporter come una donna casta e pura da sposare. La scelta non è casuale: tutti conoscono i celebri filmati porno dell’attrice americana con l’ex marito Tommy Lee. Con questa considerazione non ci permettiamo assolutamente di giudicare il comportamento della formosa ‘baywatch’, ma desideriamo porre l’attenzione sulla differenza tra apparenza e realtà. Gli States appaiono come un calderone in cui l’immagine e la facciata immacolata si mescolano con un razzismo di fondo non poi così velato. Cohen (e con lui il regista Larry Charles), non risparmia nessuno: si diverte a storpiare l’inno americano (rischiando il linciaggio), corre nudo nel ristorante di un albergo di lusso, crea il caos nelle trasmissioni televisive. Il tutto è condito da un’abbondante spruzzata di stupidità e da un umorismo grottesco che può spesso ricordare i lavori più divertenti di David Zucker.
Il film verrà vietato in Kazakistan ed in Russia non sarà distribuito nelle sale cinematografiche, ma solo in home video. I kazaki e, più in generale, i popoli dell’est Europa, appaiono forse un po’ troppo trogloditi e ignoranti. Ma se volessimo andare oltre lo sfottò e avessimo voglia di considerare in maniera romantica il personaggio di Borat, potremmo definirlo come una sorta di metafora dell’uomo accusato di grettezza mentale e che, ingenuamente, cerca di trovare la civiltà in un occidente che in fondo così civile non è.
Borat è un lavoro tutt’altro che razzista. Al di là delle battute più pesanti e dell’irresistibile stupidità di fondo, il film ci appare come una satira sulle differenza culturali tra due popoli: da una parte uno che non sempre vuole integrare e, dall’altra, un popolo che non sempre vuole essere integrato (o inglobato?).
Un critico cinematografico statunitense ha sostenuto che prima di Borat la stupidità non era mai stata così intelligente. E noi ci troviamo perfettamente d’accordo.


CAST & CREDITS

(Borat - Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan) Regia: Larry Charles; soggetto: Sacha Baron Cohen, Anthony Hines, Peter Baynham, Todd Phillips; sceneggiatura: Sacha Baron Cohen, Anthony Hines, Peter Baynham, Dan Mazer; fotografia: Luke Geissbuhler, Anthony Hardwick ; montaggio: Craig Alpert, Peter Teschner, James Thomas; musica: Erran Baron Cohen; scenografia: David Maturana; costumi: Jason Alper; interpreti: Sacha Baron Cohen (Borat Sagdiyev), Ken Davitian (Azamat Bagatov), Pamela Anderson (Se stessa); produzione: GOLD/MILLER PRODUCTIONS; distribuzione: 20TH CENTURY FOX ITALIA; origine: USA; durata: 82’; web info:myspace/borat


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