Synecdoche, New York
Che Charlie Kaufman sia un abile e riconosciuto sceneggiatore non è una grossa novità. Per quanto, infatti, sia da qualcuno accusato di una scrittura troppo banale e ripetitiva, il newyorchese è autore di alcune tra le sceneggiature che maggiore successo hanno riportato negli ultimi anni, non ultima quella, molto bella, di The Eternal Sunshine of the spotless mind (da noi riportato con il “geniale” titolo Se mi lasci ti cancello) per la regia di Michel Gondry.
Il passaggio alla sedia di regista però nasconde non poche insidie e Synecdoche, New York con la sua complessa strutturazione non poteva rivelarsi un facile esordio. Lanciarsi nella breve sinossi di una qualsiasi storia di Kaufman è impresa ardua e di poca rilevanza dal momento che tutte vivono solo nella trasposizione sullo schermo. Ci limitiamo a dire che il film si presenta sotto la forma di un inestricabile ipertesto.
Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman) è un regista teatrale che vive un momento di grossa difficoltà coniugale legata anche all’insorgere dei primi sintomi di una rara malattia neurologica. Quando la moglie si trasferisce a Berlino, portandosi dietro la piccola figlia, Caden, grazie anche ad un grosso premio in denaro vinto, si tuffa nel progetto di una nuova mastodontica piece, progetto che durerà sino alla sua morte. Creando e ricreando scene di vita in parte nuova in parte autobiografica, chiede ai suoi attori non di interpretare bensì di condurre una vita artificiale all’interno dell’immensa scenografia realizzata.
Realtà della finzione contro finzione della realtà, il topos del doppio condotto sino ad una naturale esasperazione, ed il difficile rapporto con la malattia. Sono queste le direttrici tematiche all’interno delle quali Kaukman costruisce il suo film. Tale è il reticolo di dimensioni che si sovrappongono e talmente sottile è la membrana che divide il possibile dall’irreale, che tutta la pellicola procede in un continuo intersecarsi e superarsi di piani e livelli differenti. Quasi impossibile rintracciare e distinguere la vita dal palcoscenico. Tutto fa parte di un’unica iperbolica rappresentazione.
Kaufman porta davvero all’estremo la sua poetica, da sempre giocata sullo scambio di ruoli tra verità e menzogna dell’esistenza. Lo fa con consapevolezza e bravura solo sino a metà film circa, quando poi qualcosa sembra fuggire dal suo controllo e perdersi irreparabilmente. Quello che prima appariva essere un complesso ma ragionato gioco di intrecci e di slittamenti improvvisamente comincia a mostrarsi talmente machiavellico da cadere un po’ nell’ovvietà. Lo sceneggiatore, ormai diventato regista (siamo sicuri che non si tratterà della sua unica esperienza dietro la macchina da presa), sfrutta il fascino, comunque presente, della sua storia, ma non riesce compiutamente a trasformarla in cinema, a mutare cioè un linguaggio che da scritto deve trasformarsi in immagini seguendo una grammatica totalmente diversa.
Dato che si tratta della prima prova un minimo di acerbità è da mettere in conto. Viene parzialmente salvato dalla sicurezza delle interpretazioni degli attori che ha saputo scegliere. Su tutti Philip Seymour Hoffman ma, tra gli altri, anche Samantha Norton, Michelle Williams ed Emily Watson.
(Synecdoche, New York ); Regia e sceneggiatura: Charlie Kaufman; fotografia: Fred Elmes; montaggio: Robert Frazen; musica: Jon Brion; interpreti: Philip Seymour Hoffman, Samantha Norton, Michelle Williams ed Emily Watson, Dianne Wiest; produzione: Sidney Kimmel Entertainment, Likely Story, Projective Testing; distribuzione: Ocean Film Distribution; origine: USA; durata: 124’