Cannes 2009 - Thirst - Concorso

Non è errato considerare Park Chan-wook uno degli registi che meglio, ad oggi, sanno costruire ogni inquadratura secondo regole e suggestioni in grado di fascinare immediatamente lo spettatore. La sua estetica si fonda su proporzioni geometricamente perfette, l’unica possibile per trasferire sullo schermo la complessità di sceneggiature che solo ad uno sguardo superficiale usano esclusivamente le dinamiche della violenza, basandosi in realtà su di una fitta rete di livelli narrativi che incontrandosi danno vita a personaggi e situazioni che colpiscono chi osserva tanto da entrare a far parte di un ideale immaginario iconografico. Ed il film che meglio riassume questo percorso è con ogni probabilità quel Sympathy for Lady Vengeance (t.i. Lady Vendetta), terzo e conclusivo capitolo della sua più nota trilogia.
Con Thirst, proposto all’interno della competizione ufficiale, il regista coreano prosegue il suo personale dialogo con il grottesco (da sempre suo punto di forza ed estremizzato nel precedente I’m a cyborg, but that’s ok) costruendo un horror sui generis in cui l’elemento satirico sta alla base di tutto l’intero racconto.
Lontano dall’essere un canonico film sui vampiri, Thirst gioca, secondo i tempi e i modi propri della poetica del suo regista, con la morale cattolica, con determinate regole etiche e di comportamento che pongono, o dovrebbero farlo, sacerdoti e clerici al di sopra del comune comportamento degli uomini. È dissacrante Park Chan-wook proprio in questo suo ricondurre la spiritualità ad un rapporto che diviene ben presto inscindibile ed ingovernabile con il sangue, ciò che di più profondo nutre la nostra materia e sostituendo l’ideale e il dogma della vita eterna con quello della perenne dannazione. Dietro l’ironia di alcune sequenze, grottesche (come detto) nello spingersi verso estreme rappresentazioni, c’è una neanche troppo velata riflessione sull’istinto e sull’impossibilità di governarlo da parte dell’uomo. Visivamente la pellicola si giova dell’estro del regista coreano raggiungendo la sua acme proprio in un epilogo dal forte valore simbolico e dalla ineccepibile bellezza formale (ricordando curiosamente il finale di un noto film horror di qualche stagione fa di cui non sveliamo il titolo per non rovinare la sorpresa).
Dieci gli anni necessari all’autore per dare vita al suo progetto. Durante la lavorazione di Joint Security Area, infatti, per la prima volta Park espone il soggetto a Song Kang-ho, protagonista e star incontrastata tra gli interpreti del panorama coreano. Thirst, inoltre, segna un punto di svolta per l’industria cinematografica del paese ponendosi per la prima volta come pellicola realizzata in coproduzione con una major hollywoodiana come la Universal. Contrariamente ai lavori passati però, il film sembra risentire un po’ di questa commistione tra elementi di generi tra loro lontani. Se resta immutata la consistenza estetica, manca di incisività e immediatezza il racconto vero e proprio. La bravura del regista e, ancora una volta, lo straordinario impianto visivo mascherano dei momenti di stanca che non permettono a Thirst di decollare definitivamente.
Sarà curioso vedere come sarà accolto dai tanti appassionati ed amanti del cinema di Park Chan-wook. Noi che eravamo euforici dopo la proiezione veneziana di Lady Vendetta siamo usciti dal cinema divertiti ma senza particolari entusiasmi.
(Bak-Jwi) Regia: Park Chan-Wook; soggetto, sceneggiatura: Jeong Seo-Gyeong, Park Chan-Wook; fotografia: Chung Chung-hoon; montaggio: Kim Sang-Bum, Kim Jae-Bum; musica: Cho Young-Uk; interpreti: Song Kang-Ho (Sang-Hyun), Shin Ha-Kyun (Kan-Woo), Kim Hae-Sook (Ms. Ra), Kim Ok-Vin (Tae-Joo); produzione: Moho Film; distribuzione: Wild Side Films; origine: Korea; durata: ‘133;
