Capitalism: A Love Story

Definirlo un semplice documentario è restrittivo. Micheal Moore con Capitalism: A Love Story torna in qualche modo alle sue origini. Non solo perché riprende, allargando lo sguardo, parte del tema affrontato in quel Roger & Me che lo rese famoso nel 1989, riportando sullo schermo le rovine industriali di Flint, sua città natale, ma soprattutto perché si riappropria di un registro narrativo di tipo cronachistico, senza lesinare l’impianto satirico che caratterizza i suoi film, eliminando però parte di quella retorica “piagnucolosa” che intralciava le sue più recenti pellicole (Sicko mostrava già segni di “redenzione” in tal senso).
È un atto di accusa duro quello del regista nei confronti del sistema economico occidentale (americano in particolare), che pone in evidenza i disastri provocati dalla libertà legislativa, economica e politica di cui hanno goduto le più grandi industrie del paese. Tutti colpevoli, dai principali banchieri alla classe politica che, da Reagan incluso in poi (l’apice si tocca con George W. Bush), hanno chiuso gli occhi, complici neanche troppo silenziosi a detta dell’autore, permettendo l’impoverimento totale del ceto medio. Come sempre Moore parte dal particolare, dal singolo caso (e sono questi i frangenti meno riusciti per una eccessiva esposizione e ammiccamento al drammatico delle testimonianze) per poi aprire a ventaglio la sua dialettica ed il suo obbiettivo.
Si inizia dai pignoramenti, dai 14.000 posti di lavoro persi quotidianamente sino ai consueti tentativi di sfondare i luoghi simbolo del potere, enormi grattacieli in cui trovano sede le più grandi catene bancarie. Nel film si mischiano storia ed attualità. Si dà voce tanto alle illusioni di ricchezza promosse dalla ideologia capitalista, quanto alla disperazione di chi quelle promesse le ha viste volare via con la propria casa ed i beni risparmiati. Materiale d’archivio ed interviste si alternano lasciando consolidare la certezza della colpa e qualche lieve speranza. Speranza che segue un percorso ideale che parte dalle parole di Roosevelt (pronunciate un anno prima della morte) per arrivare ai proclami di un Obama appena eletto e su cui il regista ripone una profonda, e per nulla mascherata, fiducia.
È un Moore meno presenzialista del solito. Solo nel finale lascia libero sfogo alla sua non esile fisicità regalando alcuni tra i momenti più divertenti del film eccezion fatta per le ripetute e puntuali frecciate di scherno, divenute ormai caratterizzanti il suo cinema, rivolte a George W. Bush. Ciò che nei titoli precedentemente prodotti era stato affrontato in modo analitico, argomento per argomento, in Capitalism: A Love Story ritrova unità. Armi, riforma sanitaria, politica del terrore, le truffe delle assicurazioni e dei più ricchi istituti di credito sono tutti temi che il regista di Flint riunisce in un unico grande ritratto della condizione socio-economica contemporanea. Proprio per questo il film si pone come una delle operazioni meglio riuscite e probabilmente più personali, caratterizzato da una compattezza e completezza che da tempo non si rintracciavano nel cinema di questo autore autodidatta. Il messaggio arriva come un macigno alla platea e ne è piena dimostrazione l’accoglienza che la sala destina alla pellicola.
(Capitalism: A Love Story), Regia e sceneggiatura: Michael Moore; fotografia: Jayme Roy, Daniel Marracino; montaggio: John Walter, Conor O’Neil, Alex Meillier, Jessica Brunetto; musica: Jeff Gibbs; suono: Mark Roy, Hillary Stewart, Francisco La Torre; produzione: Dog Eat Dog Films, Rod Birleson, John Hardesty; distribuzione: Mikado Film; origine: Usa 2008; durata: 120’
