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CAPO NORD

Pubblicato il 11 marzo 2003 da Giovanna Quercia


CAPO NORD

Impossibile sfuggire ad una sensazione di déja vu quando inizia la visione di Capo nord. Quattro diciottenni napoletani partono alla volta del nord Europa mossi dal desiderio di dare una svolta alla loro vita. Cercano un tesoro che, stando alle indicazioni di una fantomatica informatrice, dovrebbe trovarsi in una casa abbandonata in Germania. La cosa si rivela subito un bidone, ma per i quattro ragazzi tornare indietro, a fare le vasche nel corso di Napoli intravisto all’inizio, sarebbe uno smacco troppo grande. Continuano così il loro viaggio, senza soldi, senza una meta precisa, governati da una forza tanto potente. quanto oscura. È il mito della vita on the road, quello della beat generation ultravisitato da libri e film? Può darsi, ma i quattro giovani protagonisti sicuramente non lo sanno. Sicuramente non hanno letto molti libri e d’altronde non sembrano certo tipi da fermarsi a riflettere su quello che accade loro. Il regista, dal canto suo, provvede a smontare una ad una le loro illusioni, compresa quella di cavarsela con furti e borseggi, e li conduce nel mondo sottoproletario di Oslo, a far la medesima vita degli immigrati marocchini o pakistani. Operai in una discarica o lavapiatti di giorno, alcol e rimorchio nelle bettole di notte. Per un po’ tutto questo, complice la vitalità spensierata che li anima, sembra loro un’avventura bizzarra, una tappa che li condurrà prima o poi a “sfondare”. E sfondare in Norvegia non è certo come sfondare a Napoli, dice a un certo punto il personaggio interpretato da Emanuele Valenti, che è un po’ il capobanda nonché la voce narrante del film. Come e perché si siano formati questa idea così astrusa, perdurante malgrado la realtà dura e ostile che incontrano, non è dato sapere perché il film non ci racconta nulla del loro passato. Sempre in bilico tra delinquenza e volontà di integrazione, i protagonisti si limitano ad esistere, ad esprimere la loro vitalità. Il regista, al contrario di quanto fa con i personaggi norvegesi, non sembra interessato a connotare socialmente i quattro “scugnizzi”, né tantomeno a giudicarli (persino l’omicidio, peraltro non scoperto, rimane un episodio tra i tanti): la sua preoccupazione sembra piuttosto quella di filmare fenomenologicamente, lasciando molto spazio all’improvvisazione, quel momento della vita di ognuno in cui tutto è possibile, persino che uno spiantato ragazzetto napoletano con il sogno di fare l’attore diventi una guida turistica a Capo nord. Molte sono le incongruenze che potremmo rilevare nella sceneggiatura di questo film, la cui realizzazione è stata (a detta della produttrice) avventurosa come il viaggio raccontato, tuttavia non si può giudicare un articolo 8 girato da un esordiente tra mille ristrettezze economiche con i criteri che adotteremmo per una produzione hollywoodiana. Quel che conta è che il regista sia riuscito a raccontare efficacemente, grazie anche al contributo di giovani attori bravi e in parte, l’amarezza inconsapevole dei primi disincanti. Il film non uscirà in Norvegia perché le persone che contano nel mondo del cinema norvegese non hanno gradito il ritratto impietoso dei loro bassifondi. Senza considerare che anche la miseria è globale o, per dirla con un antico proverbio popolare, tutto il mondo è paese.

[marzo 2003]

Regia: Carlo Luglio. Sceneggiatura: Carlo Luglio. Fotografia: Fréderic Fasano. Montaggio: Alessio Doglione, Stefano Chierchié. Musica: Paolo Pagnani. Interpreti: Emanuele Valenti, Francesco Vitello, Alberto Cretara, Luca Riemma. Produzione: Artimagiche/Thule. Origine: Italia, 2002. Durata: 103’. Distribuzione: Thule. Web info: www.thulefilm.com

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