X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Castaway at home

Pubblicato il 31 gennaio 2016 da Fabiana Sargentini


Castaway at home

Sono su un’isola deserta grande quanto un lenzuolo matrimoniale, galleggio da un angolo all’altro in balia delle tempeste emotive, la spossatezza mi sopraffà e affogo in un mare di pensieri negativi, onirici mostri marini onnipotenti mi attanagliano in tentacoli di calamaro gigante... Apro gli occhi e vedo sullo schermo Castaway on the moon, assurdo film coreano di qualche anno fa (Lee Hae-jun, 2009), a lungo caldeggiatomi da un’amica danzerina. Nei tempi di questo mio pneumonico isolamento forzato non potrebbe essere visione più adatta. L’isola Bamseom dove si ritrova Mr.Kim, il protagonista fallimentare suicida, non è che un fazzoletto di terra sporca, ricettacolo di rifiuti, buste di plastica, flaconi vuoti di sapone per i panni, detriti arrivati dal fiume cittadino Han dentro cui il surreale isolotto disabitato è situato e il naufrago è bloccato (scusa più plausibile: non sa nuotare). La bella stagione lo persuade a non tentare un ritorno alla società: si mette alla prova nella coltivazione, cerca i semi, defeca concime, ara la terra fino al primo germoglio, esperimenta ardite ricette culinarie: il desiderio di un piatto di noodles lo motiva dal di dentro con potenza primigenia. Ben presto non è più la difficoltà a trovare un modo di abbandonare lo stato di isolamento, in lui subentra l’assoluta necessità (per vivere) di restare in una condizione spaesata ma introiettiva, non violentata dai ritmi frenetici dell’economia vigente che lo aveva condotto fino a quell’argine del ponte da cui aveva desiderato tuffarsi cercando l’oblio: l’oblio ha assunto caratteristiche emozionanti, le piogge come il sole rappresentano tutto per lui, lo spaventapasseri che indossa i suoi vestiti un alter ego tradizionale di cui non abusa con discorsi e teorie, gli basta che esista e faccia il suo lavoro spaventando gli uccelli. Ma, fine della pace solitaria, ad un tratto del soggiorno comincia a ricevere degli abusatissimi message in a bottle, che, in questo caso, pur negli avanzati anni Duemila, sostituiscono sms, whatsap, email (Kim ha ovviamente anche il cellulare scarico). C’è qualcuno che da lontano lo monitora, lo saluta, prova a dargli il suo sostegno. Che sia un’anima sconsolata quanto lui non lo saprà fino alla fine, ma di certo diventare l’ancora sull’altra sponda per qualcuno rinforza e motiva l’uomo verso la vita.
Invece io sto qui, mi barcameno tra l’avere il gatto sulle cosce, sul petto o accanto al cuscino: leggo, ma a mettere gli occhiali ancora non mi sono abituata, aspetto (visite, fermenti lattici, vitamine, arance - da evasione - e punture quotidiane di antibiotico), vedo film, scrivo. Chi m’ammazza? Chi sta meglio di me? Perché trafelarsi nella città a ritmo forsennato, correre da nord a sud, da est a ovest ad accompagnare il proprio figlio ad attività ludiche, sportive, culturali, ostinarsi a trovare il prodotto biologico al miglior prezzo fino al negozio più scomodo da raggiungere con i mezzi pubblici, perché? Dalla mia finestra è tutto bello, i tetti, i gabbiani, i tramonti e la luce che si allunga fino alle cinque, cinque e mezza... Mangio poco, mi idrato molto, cerco di risolvere questioni di vitale importanza arenandomi immancabilmente al primo dubbio. Quel che posso fare lo faccio, il resto no perché sono stanca, abbattuta dai farmaci, al limite pure un po’ depressa. Nemmeno una bottiglietta di plastica con un pezzetto di carta con che so, uno smile, mi è arrivata dal cielo, e dire che sono al sesto piano: meno fortunata di Kim, di sicuro meno dinamica e accattivante. Forse avrei potuto mettere una telecamera nascosta e girare un film sulla mia reclusione forzata, forse finalmente avrei vinto i festival, fatto sorridere gli esercenti e i distributori convincendoli ad aprirmi le loro porte, forse avrei rotto il muro del suono o trovato il vello d’oro... Tuttavia, anche questo resta un sogno incompiuto, come molti altri. Però almeno una cosa ce l’ho, il titolo: Castaway at home.


Enregistrer au format PDF