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Gli anni col 5

Pubblicato il 31 dicembre 2015 da Fabiana Sargentini


Gli anni col 5

Il 5 è il mio numero. Mi porta bene. Sono nata il 5. Mia madre pure. La madre di mia madre, mia nonna, lo stesso. Tutte in diversi mesi ovviamente (Mio figlio ne ha aggiunti 20, nascendo di 25). Entro i miei quindici anni ho compiuto cinque viaggi in India con i miei genitori, ho recitato in cinque spettacoli teatrali con la regia paterna, ho per cinque volte capito che l’amore può finire e ricominciare (tre per cinque quindici). Non bisogna essere appassionati di numerologia per avere un numero portafortuna o una preferenza numerica. Molti hanno il proprio, per una ragione o per un’altra, spesso in maniera totalmente irrazionale.
Nel 1985 ho cominciato a notare che per me gli anni che finivano col 5 erano anni difficili. Soffrivo per la separazione dal bel biondo destrorso conosciuto al mare e baciato per la prima volta in una macchina tra le curve della collina dove abitavamo, sulle note di The heat is on di Glenn Frey, dalla colonna sonora di Beverly Hills Cop (erano i tempi in cui c’era Eddy Murphy). Vestivo di nero con quaranta gradi all’ombra, mi laccavo le labbra di nero alla Morticia per castigare il mio aspetto salubre giovanile e allontanare maleintenzionati che non fossero il mio bello. Misi l’apparecchio ai denti. Mio padre visse una crisi di mezz’età di cui risentì tutta la famiglia. Fu un anno di merda. Nel frattempo mi appassionavo sempre più al cinema, da sempre ancora di salvezza dei più sfigati. Qualche film italiano lo vedevo: Ginger e Fred (chissà perché tendo a dimenticare che Fellini un tempo era vivo e si poteva andare a vedere le sue opere in sala),Festa di laurea (Pupi Avati, vecchio seppur non anagraficamente), La messa è finita (quando Nanni non era ancora istituzione ma pugno nello stomaco e dissacrante potenza distruttiva). Molti film americani, qualche francese, qualche outsider. Ritorno al futuro, Zemeckis per giocare; La mia Africa per sentirsi colti leggendo la Blixen; Il colore viola per essere politically correct; L’amour braque di Zulawski con cui, allora non sapevo, si era fidanzata Sophie Marceau, che nella pellicola si mostrava seminuda, a mio avviso scandalosamente, dopo aver incarnato l’amatissima Vic Beretton de Il tempo delle mele qualche anno prima; Je vous salue Marie grande scandalo godardiano: infervorati cattolici impedivano al pubblico di entrare nelle sale, perché il cinema voleva dire qualcosa nelle vite delle persone; Tre uomini e una culla, commediola per i cuori più duri; Ballando con uno sconosciuto di Mike Newell, conferma dell’innamoramento per Rupert Everett (la scoperta che fosse gay avvenne molti anni dopo) nonostante fosse un film minore rispetto a Another country di Marek Kanievska che l’aveva scoperto, insieme a Colin Firth; il visionario Terry Gilliam di Brazil; My beautiful laundrette di Frears con sceneggiatura di Kureishi; Il bacio della donna ragno da Manuel Puig, William Hurt baciato dal cielo; due pellicole giovanilistiche di tutto rispetto, Breakfast club di John Hughes (Don’t you forget about me dei Simple Minds, vero tormentone del cuore) e St. Elmo’s fire di Joel Schumacher (interpretato dagli allora migliori attor giovani su piazza: Rob Lowe, Demi Moore, Emilio Estevez - figlio di Martin Sheen con cognome della madre -, Judd Nelson, Andrew McCarthy, l’Ally Sheedy di War games, Andie MacDowell (solo nella pellicola di Hughes, ma elemento fondante del cosiddetto Brat Pack, questo gruppetto attoriale, la rossa Molly Ringwald). Sequenza di indimenticabili: Fandango, entra a gamba tesa Kevin Costner nelle nostre vite (e non va più via); Follia d’amore di Altman da Sam Shepard (il grande Bob può anche sbagliare ma il suo tocco è sempre da maestro); La rosa purpurea del Cairo: Woody ruggente più dei suoi anni.
Per ridere di gusto e con intelligenza: Cercasi Susan disperatamente, regia di Susan Seidelman: nessuno come Madonna si phonerà mai le ascelle in un bagno pubblico con l’asciugamani elettrico; La donna esplosiva che esaudisce i sogni degli adolescenti di buona famiglia americani materializzandosi dal nulla nelle membra di Kelly Le Brock; Tutto in una notte, un John Landis per estimatori.

Nel 1995 ho iniziato ad andare in terapia psicoanalitica. Facevo la babysitter per pagarmi le sedute. Ero fidanzata e innamorata ma piangevo tutti i giorni.
Uscite di quell’anno. L’amore molesto di Martone tratto da una Ferrante allora poco considerata. L’ultimo Antonioni diretto su sedia a rotelle, insieme alla moglie, Al di là delle nuvole: da studentessa di cinema non potei che apprezzarlo (salvo rivederlo in seguito e pensare che era un delirio illusorio e un po’ porno di un vecchio). I buchi neri di Pappi Corsicato, una ventata di Almodovar nostrano.
La scuola, Luchetti tratto da Starnone interpretato dall’allora prezzemolino Silvio Orlando (onnipresenza nel cinema italiano, cosa che non lo ha certo reso meno bravo). Cuore cattivo, dimenticabile film con un Kim Rossi Stewart che si affacciava sugli schermi, in qualsiasi prova, con una fragilità e una grinta da grande attore. La seconda volta, Calopresti esordisce prodotto da Nanni Moretti, la prima volta della Bruni Tedeschi nella sua patria d’origine: una storia di terrorismo, un’importante scelta di riflessione sulla storia italiana recente. Ferie d’agosto di Virzì, la commedia all’italiana torna a vivere, a sorridere, a respirare aria fresca, una gioia. Terra e libertà di Ken Loach, il cinema politico che si fa popolare: ci voleva. Il premio Oscar Tornatore riprova con una storia minima siciliana con L’uomo delle stelle, interpretato da un Sergio Castellitto, strappato al teatro. I laureati segna l’esordio di Leonardo Pieraccioni, comicaccio toscano. Nel frattempo gli scomodi Ciprì e Maresco di Cinico tv mettono a punto Lo zio di Brooklyn spiazzando pubblico e critica. Col secondo film da regista Mel Gibson sbaraglia tutti vincendo cinque Oscar con Braveheart: ecco che torna Sophie Marceau, versione milady. Scorsese fa Casinò usando Sharon Stone in un ruolo drammatico; Clint lascia libera la vena romantica con I ponti di madison county; Woody rende il mondo delle prostitute spiritoso in La dea dell’amore; Jarmush in bianco e nero segue Dead man, mentre Dead man walking della coppia Sarandon-Robbins urta il mondo conservatore americano schierandosi contro la pena di morte. Mentre avanza L’esercito delle 12 scimmie di Gilliam arrivano I fratelli mcMullen (Ed Burns, che fine ha fatto?), in una sgarbata commedia agrodolce nuiorchese. Altra commedia firmata Todd Solondtz (prima di Happiness) Fuga dalla scuola media. Tom Di Cillo filma il tautologico Si gira a Manhattan con Steve Buscemi e Catherine Keener, protagonisti fissi della cinematografia off americana degli anni Novanta. Smoke conferma che la matrice letteraria (in questo caso Paul Auster) può dare un buon impulso alla narrazione. Seven e I soliti sospetti forniscono due ottimi esempi di film di genere avvincente, ben scritto e superbamente recitato. Chabrol dirige la Huppert e la Bonnaire in Il buio nella mente, tenendo lo spettatore aggrappato alla sedia della sala. Un film francese turba l’orizzonte: l’esordio di Matthieu Kassovitz, L’odio, sulle banlieu parigine, con un trasfigurato Vincent Cassel in stato di grazia. Monicelli disegna un interno di famiglia borghese tutto al femminile in Peccato che sia femmina. Dai Balcani arriva Underground di Kusturica: musica, sporcizia, alcol, sputi, colori ed emozioni forti.

Nel 2005 invece l’ho fregato, il fato. Mi sono sposata. Ho controvertito l’ordine delle cose ed è successa una delle cose più belle della mia vita. "Ho rotto l’incantesimo" ho pensato. Non sono più Cenerentola, né la bella addormentata nel bosco. Per un po’ ci ho creduto. Uscite film di quell’anno. Brokeback mountain, uomini che si amano. Match point, punta di diamante alleniana in un dramma quasi ai livelli di Crimini e misfatti (1989). Spielberg narra la cronaca statunitense con Munich.
Broken flowers ci fa sorridere seguendo Bill Murray alla ricerca, tra le sue ex fidanzate sparse per l’America, del mittente della lettera che gli comunicava l’esistenza di un figlio mai saputo di avere. Conosciamo l’orso grizzly insieme a Herzog in Grizzly man. Ridiamo con Orlando Bloom e Kirsten Dunst in Elizabethown di Cameron Crowe.
Clooney ci sorprende con Good night and good luck rimasto a bocca asciutta di Oscar, nonostante fosse stato candidato in sei categorie. Ogni cosa è illuminata dal romanzo di Jonathan Safran Foer. Commediaccia con Steve Carrell 40 anni vergine. The constant gardner va in Africa e regala l’Oscar a Rachel Weisz come migliore attrice non protagonista. Clint riceve l’Oscar per la miglior regia con Milion dollar baby, dodici anni dopo quello vinto per Gli spietati"nel 1993.

Poi è arrivato il 2015 che, per me, è stato l’anno dei lutti. A giugno è morto Remo Remotti, al quale ero legata dall’infanzia. A ottobre, dopo soli tre mesi dall’aver compiuto 91 anni, è morto Morando Morandini. Mi si è rotto qualcosa nel cuore. Ogni film bello che vedevo pensavo che il mio mentore con il gerundio nel nome non lo avrebbe visto e non ne avremmo potuto parlare.
Uscite cinematografiche di quest’anno. Il più bel film di tutti, per me è Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnauld Desplechin, presente a Cannes 2015 nella sezione Quinzaine des realizateurs, una comedie humaine di sentimenti che tocca il cuore.
Alla Berlinale il bel Ixcanul-Vulcano, full immersion tra le popolazioni maya della foresta guatemalteca. A Cannes alcuni gran bei film: La tierra y la sombra (uscito in Italia con l’astrusa traduzione Un mondo fragile), dolore personale raccontato in rapporto alla società che brucia coloro che non hanno le possibilità di opporsi. Mediterranea dell’italo-afro-americano Jonas Carpignano, tristemente anticipatore dell’abnorme migrazione di massa sulle coste mediterranee dai paesi in guerra. Much loved, una storia mai raccontata in questa maniera in Marocco: scioccante. El club, Larrain non ha pietà per nessuno e palesa corruzione e pedofilia della chiesa in Cile. Dio esiste e vive a Bruxelles, Van Dormael si diverte a immaginare un Dio schifoso, laido, arido, senza cuore. Diamante nero della francese Céline Sciamma, una sorta di L’odio al femminile versione black vent’anni dopo. Mountain israeliana visione dei limiti dell’estremismo religioso e di come si possa, o non possa, reagire ad esso. Il magnifico L’hermine (coppa Volpi meritatissima a Fabrice Luchini), film giudiziario, commedia romantica e satirica in un solo contenitore. Mistress America, Baumbach splendente come sempre in un gioco di relazioni tra finte sorelle. Mustang storia turca di cinque sorelle segregate da un patriarca pazzo. In Grandma (visto al festival di Roma) Paul Weitz dona a Lili Tomlin un ruolo femminile da urlo (supportata da attrici co-protagoniste grandiose, una tra tutte Marcia Gay Harden).
Al Torino Film Festival alcune chicche: Nasty baby di Silva, dura commedia-dramma a Brooklyn; Hello, my name is Doris (regia di Michael Showalter) con Sally Field, sessantenne strampalata e stravagante; il vincitore Keeper, opera prima di Guillaume Senez, piccolo film belga che trascina lo spettatore nella mente di un adolescente che decide di tenere un figlio; il classico francese Coup de chaud: sapiente immersione nella provincia di bassa quota. Cinquanta sfumature di grigio non ha lasciato segno del passaggio. Irrational man, Woody di Natale, la sua versione di una storia che finisce per far discutere comunque, che piaccia o meno.
E poi ci sono stati anche gli italiani: Arianna a Venezia, l’ermafroditismo raccontato con lievità e poesia visiva; Mia madre a Cannes, il lutto di Nanni di fronte ai nostri occhi attoniti; L’attesa a Venezia, con gelo sorrentiniano la storia di una perdita nella vita di due donne di diverse generazioni; Non essere cattivo, film postumo orfano di padre (a Venezia);
A bigger splash, film con cast tutto internazionale girato nella torrida Pantelleria (concorso a Venezia): divertissement sul mondo dei super ricchi; Padri e figlie, Muccino flop nelle sale; Il racconto dei racconti e Youth a Cannes; Gli ultimi saranno ultimi grande incasso al botteghino per la "nuova" commedia italiana, Massimiliano Bruno scrive, con la sua protagonista Paola Cortellesi, una storia marginale con cura e delicatezza (a dispetto delle prove precedenti). Vergine giurata a Berlino, e poi dappertutto, fa incetta di premi: una piccola storia di un corpo dentro una pelle che non gli calza a pennello. Maraviglioso Boccaccio, inaspettato flop dopo l’inaspettato Orso d’oro a Berlino con Cesare deve morire.

Ora l’anno col cinque me lo sono messa alle spalle. Ne arriva uno col sei, poi col sette e via avanti con l’otto. Dovranno passare altri nove anni prima che torni. Ho tempo di cambiare, per gioco provare a rimettermi il rossetto nero, imparare tai chi, raccogliere le favole inventate la sera per mio figlio in un volume illustrato, riallacciare i fili tra passato e presente guardando al futuro, immaginandolo pacifico, benevolo, sorridente come un gatto che strizza gli occhi facendo le fusa. E di vedere molti altri film, uno diverso dall’altro, uno meglio dell’altro, uno dopo l’altro. Sempre viva il cinema!


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