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CATERINA VA IN CITTA’

Pubblicato il 18 ottobre 2003 da Edoardo Zaccagnini


CATERINA VA IN CITTA'

La commedia all’italiana ha raccontato la tragedia di un naufragio antropologico. Cinquant’anni di parole, gesti e icone per le strade, le case e gli uffici del presunto bel paese. Uno sguardo geniale e caustico che ha rinunciato con gli anni all’approfondimento analitico, in un passaggio triste dalla satira alla farsa, dal bozzettismo post-neorealistico, con lo schema antieroico degli sceneggiatori Age e Scarpelli, alla leggerezza inutile del Pieraccioni o del Salemme di turno. In mezzo, l’uscita dalla guerra e il boom, del quale la commedia di costume è stata brava a raccogliere soprattutto le ombre. La commedia all’italiana è un genere nostrum senza manifesto e programma, ormai classico nell’eternità dei Bruno Cortona (Il sorpasso), Oreste Jacovacci (La grande guerra), di uno schiaffo al commendatore (Una vita difficile), di un sorpasso impossibile. Un filone oggi stanco e debole come chi lo inventò e rese celebre: da Dino Risi a Monicelli, da Ruggero Maccari a Ettore Scola, che coi loro sorrisi amari, lunghi quasi mezzo secolo, resero digeribile, meno dolorosa e antirivoluzionaria, un’analisi spietata dell’italiana vigliaccheria. Poi l’inevitabile invecchiamento e i fallimenti manierati degli ultimi lavori. Fino a Paolo Virzì da Livorno, classe ’64. Nastro d’argento nel ’94 con La bella vita per la miglior regia, Premio speciale della giuria a Venezia ’97 con Ovosodo. Impossibile oggi non riconoscere in lui l’erede naturale dei vecchi maestri. La struttura dei suoi film è quella classica e ben oliata della commedia all’italiana. La politica, la famiglia, e l’ossessione per una Roma fellinianamente mostruosa, descritta come una sirena confusa. Ritratti emblematici e simbolici, tic tragicomici e familiari. Un rapporto organico tra sfondo e personaggi, l’uso magistrale del dialetto e dello slang. Tutte caratteristiche che ritroviamo nel nuovo Caterina va in città, ultimo capitolo di una saga satirica malinconica e tagliente, che assomiglia un po’ a Ferie d’agosto, perchè, senza un protagonista principale, tutti e due i film si avvalgono di una stessa figura-strumento sospesa tra due schieramenti in apparente conflitto, e perchè sia la destra che la sinistra paiono svuotate da un processo di omologazione killer. Sull’isola di Ventotene un venditore ambulante di colore favoriva lo scontro tra il qualunquismo arrogante e semi analfabeta di una romanità popolare contro una certa sinistra narcisista e snob; ora una tredicenne timidissima di nome Caterina si ritrova, per colpa del padre, giocattolo in mano all’elite capitolina. Caterina e il venditore rimangono estranei, come angeli in volo, alla degenerazione sociale. Ma ora troviamo un aspetto nuovo nel cinema di Virzì e del suo co-sceneggiatore Francesco Bruni: tra una sinistra depressa dalla sconfitta e da una crisi di identità che dura ormai da più di dieci anni, e una destra arrogante e festaiola che cammina a braccetto con l’avversaria confusa, compare il conflitto tra i "vincenti" e i "perdenti". E’ un mondo diviso tra chi è dentro e chi è fuori, tra potere e servitù, tra protagonisti e spettatori. Ma Caterina somiglia molto anche al Piero Mansani di Ovosodo, col suo magone che non va ne su ne giù, col suo senso di inadeguatezza, goffo e genuino, che alla fine la porterà a guardare il futuro con più fiducia di chi dietro alle maschere nasconde solitudine e fragilità. Perchè le famiglie che il regista gli costruisce intorno sono deboli e distratte, ossessionate dall’ambizione e incapaci di dare affetto e comprensione. Il momento di liberazione avviene nella tragedia, quando la famiglia si dissolve e lascia il posto a qualcosa di impreciso, ma di spontaneo e sereno. Quando il meraviglioso personaggio di Giancarlo Iacovoni (Sergio Castellitto), emblema della più testarda frustrazione, fugge dalla sua vita a cavallo di una vecchia moto, Caterina tornerà al suo paese rinunciando alla contaminazione e ad incontrare un mostro sulla spiaggia di Fregene, tanto per citare Fellini e il finale de La dolce vita. La Roma di Caterina è la stessa di Paolo Virzì: una città che affascina e minaccia, che seduce ed abbandona. Il personaggio delicato di questa ragazzina è ancora un sentimento di inadeguatezza provinciale nei confronti di chi è più privilegiato, ma il suo dolore è sostenuto da una intima consapevolezza delle proprie risorse. Il lieto fine che che la sceneggiatura le regala è il premio alla sua purezza. Ed è lo stesso di Ovosodo.

[ottobre 2003]

regia: Paolo Virzì, sceneggiatura: Francesco Bruni, Paolo Virzì, fotografia: Tonino Zera montaggio: Cecilia Zanuso, musica: Carlo Virzì interpreti: Sergio Castellitto, Margherita Buy, Claudio Amendola, Galatea Ranzi, Flavio Bucci produzione: Rai Cinema, origine: Italia 2003, distribuzione: 01 Distribuzione

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