CATERINA VA IN CITTA’

La commedia all’italiana ha raccontato la tragedia di un naufragio antropologico. Cinquant’anni di parole, gesti e icone per le strade, le case e gli uffici del presunto bel paese. Uno sguardo geniale e caustico che ha rinunciato con gli anni all’approfondimento analitico, in un passaggio triste dalla satira alla farsa, dal bozzettismo post-neorealistico, con lo schema antieroico degli sceneggiatori Age e Scarpelli, alla leggerezza inutile del Pieraccioni o del Salemme di turno. In mezzo, l’uscita dalla guerra e il boom, del quale la commedia di costume è stata brava a raccogliere soprattutto le ombre. La commedia all’italiana è un genere nostrum senza manifesto e programma, ormai classico nell’eternità dei Bruno Cortona (Il sorpasso), Oreste Jacovacci (La grande guerra), di uno schiaffo al commendatore (Una vita difficile), di un sorpasso impossibile. Un filone oggi stanco e debole come chi lo inventò e rese celebre: da Dino Risi a Monicelli, da Ruggero Maccari a Ettore Scola, che coi loro sorrisi amari, lunghi quasi mezzo secolo, resero digeribile, meno dolorosa e antirivoluzionaria, un’analisi spietata dell’italiana vigliaccheria. Poi l’inevitabile invecchiamento e i fallimenti manierati degli ultimi lavori. Fino a Paolo Virzì da Livorno, classe ’64. Nastro d’argento nel ’94 con La bella vita per la miglior regia, Premio speciale della giuria a Venezia ’97 con Ovosodo. Impossibile oggi non riconoscere in lui l’erede naturale dei vecchi maestri. La struttura dei suoi film è quella classica e ben oliata della commedia all’italiana. La politica, la famiglia, e l’ossessione per una Roma fellinianamente mostruosa, descritta come una sirena confusa. Ritratti emblematici e simbolici, tic tragicomici e familiari. Un rapporto organico tra sfondo e personaggi, l’uso magistrale del dialetto e dello slang. Tutte caratteristiche che ritroviamo nel nuovo Caterina va in città, ultimo capitolo di una saga satirica malinconica e tagliente, che assomiglia un po’ a Ferie d’agosto, perchè, senza un protagonista principale, tutti e due i film si avvalgono di una stessa figura-strumento sospesa tra due schieramenti in apparente conflitto, e perchè sia la destra che la sinistra paiono svuotate da un processo di omologazione killer. Sull’isola di Ventotene un venditore ambulante di colore favoriva lo scontro tra il qualunquismo arrogante e semi analfabeta di una romanità popolare contro una certa sinistra narcisista e snob; ora una tredicenne timidissima di nome Caterina si ritrova, per colpa del padre, giocattolo in mano all’elite capitolina. Caterina e il venditore rimangono estranei, come angeli in volo, alla degenerazione sociale. Ma ora troviamo un aspetto nuovo nel cinema di Virzì e del suo co-sceneggiatore Francesco Bruni: tra una sinistra depressa dalla sconfitta e da una crisi di identità che dura ormai da più di dieci anni, e una destra arrogante e festaiola che cammina a braccetto con l’avversaria confusa, compare il conflitto tra i "vincenti" e i "perdenti". E’ un mondo diviso tra chi è dentro e chi è fuori, tra potere e servitù, tra protagonisti e spettatori. Ma Caterina somiglia molto anche al Piero Mansani di Ovosodo, col suo magone che non va ne su ne giù, col suo senso di inadeguatezza, goffo e genuino, che alla fine la porterà a guardare il futuro con più fiducia di chi dietro alle maschere nasconde solitudine e fragilità. Perchè le famiglie che il regista gli costruisce intorno sono deboli e distratte, ossessionate dall’ambizione e incapaci di dare affetto e comprensione. Il momento di liberazione avviene nella tragedia, quando la famiglia si dissolve e lascia il posto a qualcosa di impreciso, ma di spontaneo e sereno. Quando il meraviglioso personaggio di Giancarlo Iacovoni (Sergio Castellitto), emblema della più testarda frustrazione, fugge dalla sua vita a cavallo di una vecchia moto, Caterina tornerà al suo paese rinunciando alla contaminazione e ad incontrare un mostro sulla spiaggia di Fregene, tanto per citare Fellini e il finale de La dolce vita. La Roma di Caterina è la stessa di Paolo Virzì: una città che affascina e minaccia, che seduce ed abbandona. Il personaggio delicato di questa ragazzina è ancora un sentimento di inadeguatezza provinciale nei confronti di chi è più privilegiato, ma il suo dolore è sostenuto da una intima consapevolezza delle proprie risorse. Il lieto fine che che la sceneggiatura le regala è il premio alla sua purezza. Ed è lo stesso di Ovosodo.
[ottobre 2003]
regia: Paolo Virzì, sceneggiatura: Francesco Bruni, Paolo Virzì, fotografia: Tonino Zera montaggio: Cecilia Zanuso, musica: Carlo Virzì interpreti: Sergio Castellitto, Margherita Buy, Claudio Amendola, Galatea Ranzi, Flavio Bucci produzione: Rai Cinema, origine: Italia 2003, distribuzione: 01 Distribuzione
