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CERTI BAMBINI

Pubblicato il 18 maggio 2004 da Edoardo Zaccagnini


CERTI BAMBINI

Quelli di una Napoli che è ogni città del sud del mondo. Senza Vesuvio, la canzone e Totò. Un Presepe di motorini, di voci urlanti al di là delle pareti. Della Camorra che altrove si chiama in altro modo, ma che assolve sempre la stessa funzione. Dei vicoli, dell’ombra e della luce. Dei mattonati lucidi, dei clackson, dei crocifissi, delle madonne sotto i balconi. Di bambini orfani che non vanno a scuola e che vengono adottati dalla criminalità. La violenza metropolitana di tantissimo cinema. Dei napoletani Pater Familias, bellissimo, Pianese Nunzio, 14 anni a maggio, e di Rosario che quattordici anni non ce li ha, ma una pistola sì. E la usa, al posto della playstation, e del pallone. E si fa killer come si farebbe primo della classe, per obbedire e accontentare. E lo fa bene, come bene sostiene la nonna, finché essa sparisce, lasciandolo più solo, più debole e cieco. Identico davanti al bene e davanti al male. Perché non li distingue. Alla ricerca di un cenno, di un opportunità, di un amore qualunque esso sia. L’amore negato a Certi bambini. Ai figli di un terremoto che alla fine degli anni Ottanta, nel napoletano, fece orfani un numero allarmante di scugnizzi, vendendoli a una carezza, recitata, assassina. E i fratelli Frazzi, che non son napoletani ma due toscanacci, si prendono a cuore questa brutta faccenda. Dopo tanta tv, e un film, Il cielo cade, nel quale gli orrori della guerra si mostravano a un bambino, si tengono a metà tra il racconto e l’indagine sociale. Inarritu docet, e già qualcuno prima di lui: si prende il documento, lo si copre di mistero, e si calano poi i veli ad una ad uno, come in uno strip, in un gioco di vedo non vedo. Allo spettatore il compito facile di scoprire la piacevole leggerezza del cerchio chiuso. Sul realismo che denuncia, c’è il passato che è garante. Dalla strada disperata e misera il cinema italiano ha preso tra le sue cose migliori, e lo spettatore lo ricorda e riconosce. L’abitudine storica e quella attuale ad una componente eterna e comune ad ogni società (la violenza), più quella serie di reazioni che soltanto i bambini riescono a liberare, daranno forse una mano a questo onesto scugnizzi-western. Dall’omonimo romanzo di Diego De Silva, un film costruito sui viaggi della memoria del protagonista, con l’irregolarità del flash, del salto temporale. Che poi, uno spettatore allenato, è abituato a una violenza anche maggiore. Una più nascosta, domestica, psichica. Quella degli amori malati, delle solitudini, degli abusi. E violento può essere più il film dell’ argomento. Più un silenzio di uno sparo. Rosario di Certi bambini si fa voler bene e capire fino in fondo ma si allontana dallo spettatore e dai suoi fantasmi con velocità proporzionale allo scorrere delle immagini. Se ne va alla deriva portandosi dietro quel realismo che si sporca di abusato, perché diventa il romanzo di un fenomeno in via d’estinzione, di un caso troppo estremo, di un pianeta a parte. Rosario è un uomo elefante di fronte a una sorta di società vittoriana ammalata nei rapporti. Il realismo è la scelta di raccontare sulla realtà. Ma sulla realtà, come su internet, si trova di tutto. Allora il realismo è l’arte di raccontare quegli aspetti capaci di agire in maniera efficace su una società. Oggi flessibilità è realismo, disagio esistenziale è realismo, comunicazione è realismo, immigrazione clandestina è realismo. Rosario fa parte di certi bambini che una volta erano realismo. Oggi sono altro.

[maggio 2004]

regia: Antonio e Andrea Frazzi, sceneggiatura: Marcello Fois, Fernando Vicentini Orgnani, fotografia: Paolo Carrella, montaggio: Paolo Cutrì, musica: Almamegretta, interpreti: Rolando Ravello, Gianluca De Gennaro, produzione: Paolo Rinaldo per Piquod, origine: Italia 2003, durata: 106’, distribuzione: Mikado

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