Come dio comanda

Un film può rimanere impresso per la sua bellezza estetica o per la forza interiore che possiede. Per il valore pittorico del suo spazio scenico o per la qualità del viaggio visivo che regala. Oppure per la vicinanza dei suoi personaggi alla realtà, per quell’odore di sudore che emanano, per quella rabbia di carne e sangue, per quella felicità che porta fortuna, per citare un film recente. Può colpirci la loro forma pulsante e vivida, la quasi vita che caratterizza il loro agire. Solo quando entrambi gli aspetti di un film sono di elevatissima qualità, tuttavia, quell’opera può definirsi un capolavoro. E allora va coccolata come qualcosa di estremamente raro. Se prendiamo l’ultima proposta di Gabriele Salvatores (tratta dall’omonimo romanzo di Nicolò Ammaniti, vincitore del premio Strega) e intrecciamo il suo aspetto esteriore a quello interiore, non riusciamo a ricavare uno spazio definitivo ed eterno, nella nostra non eterna memoria, per collocarvi questo film tutt’altro che indimenticabile. Se analizziamo Come dio comanda partendo dall’attenzione che la pellicola presta allo spazio che dipinge, dobbiamo accontentarci di due gruppi separati di inquadrature: oneste, corrette, ma tutto sommato attendibili e non troppo interessate a comunicare tra di loro. Rappresentanti, alla fine dei giochi, giusto il minimo sindacale per un autore dotato di talento, mezzi ed esperienza non comuni. Oramai di casa, per altro, nel cinema italiano di genere. Da una parte, la prima in ordine cronologico, ci accoglie una natura di montagna soffocata da ciminiere somiglianti a funghi velenosi. Siamo tornati in una parte d’Italia (piùttosto familiare al cinema italiano recente: Apnea, Arrivederci amore ciao, La giusta distanza, Primo amore, Fuori dalle corde) sporcata da industrie alla Deserto Rosso e disorientata da un presente fuori controllo. Incontriamo una terra nordestina sballata, più grigia del suo clima naturale. Con bordi di un fiume esangue e agonizzante riempiti da immondizie arrugginite e da mucchi inutili e ruvidi di materia di scarto. Il compito di evocarci questa realtà problematica è tutto affidato ad una manciata di inquadrature cariche di contraddizioni: elementari, nella loro bellezza, e sempre identiche nel corso del film. L’incanto e l’orrore contrapposti. Quattro, cinque, sei, sette volte. Finchè la pellicola trova la sua strada e si dedica alla suspence e al buio che in parte ci seduce. Ed è da quelle parti che irrompono nel film le inquadrature da opera di genere: attentissime al rispetto educato del topos torbido di un noir. Quelle regole impongono rigore e tecnica e la ricetta è per molti versi rispettata dal regista. Eppure anche in quella seconda parte lugubre ed oscura non incontriamo un cinema capace di stupire e conquistare fino in fondo. Se poi accantoniamo ogni riflessione sullo spazio e ci avviciniamo nelle stanze della carne umana, provando a ragionare sui contenuti di questo sufficiente Come Dio Comanda, siamo costretti a concludere di tre personaggi che ci rimangono piuttosto estranei, e che arrivano alle nostre emozioni soprattutto per le azioni di genere che compiono: l’ omicidio, l’occultamento di un giovane cadavere, la custodia segreta e terribile del mistero, il suicidio, il sollievo per un fine quasi lieto. E’ questo aspetto della loro presenza che smuove un po’ le nostre passioni, e non è certo per il loro sapore umano e sociale che li consideriamo personaggi riusciti. Qualcuno potrà dire che nel film si avvertono gli squilibri sociali di una terra ricca e disorientata. Ecco si avvertono, appunto, come tutto nel film si avverte appena. I racconti su un luogo ed un tempo vengono appena sussurrati dal regista e riescono soltanto a sfiorare il film: lo fanno le immagini e lo fanno i personaggi attraverso qualche frase e qualche atteggiamento inequivocabile. Ci provano i protagonisti, quando spiegano il loro estremo disagio professionale, sociale ed esistenziale. E lo fanno le figure di contorno, compresi i giovanissimi che quasi citano i ragazzi vansantiani di Paranoid Park: simili le inquadrature, i colori, e lampante quello skate che salta giù dalle scalette. Ma nessuno, e niente, nel film, ha la forza sufficiente per far sentire veramente la sua storia. E’ un problema di scelte, di interpretazioni attoriali e di scrittura. Alla fine abbiamo ascoltato la drammatica storia del rapporto tra un padre ed un figlio che cercano di volersi bene contro tutto e contro tutti, con i loro limiti e qualche loro insospettabile virtù. Non è tutto da buttare, anzi, ma era lecito aspettarsi di più dall’incontro tra un bravo regista italiano e uno dei più famosi scrittori nostrani contemporanei. Pazienza.
(Come dio comanda); Regia: Gabriele Salvatores, Sceneggiatura: Niccolò Ammaniti, Antonio Manzini, Gabriele Salvatores, dall’omonimo romanzo di Ammaniti; Fotografia: Italo Petriccione, Montaggio: Massimo Fiocchi, Interpreti: Elio Germano, Filippo Timi, Fabio De Luigi, Alvaro Caleca, Fabio De Luigi, Angelica Leo, Produzione: Maurizio Totti, Colorado Film, Rai Cinema, Distribuzione: 01 Distribution paese: Italia 2008, durata: 103’, formato: 35mm - colore
