CONCORSO: FRATRICIDE

Sarà dunque vero che il futuro del cinema tedesco d’autore è nelle mani dei (neanche più tanto) giovani turchi, immigrati di seconda generazione? Il fenomeno non è quantitativamente tale da far temere una sorta di colonizzazione culturale, ma certo qualitativamente è innegabile che i migliori prodotti cinematografici, e soprattutto i più esportabili a livello internazionale, provengano dall’orgoglio Kanak (termine dispregiativo usato contro gli immigrati turchi, e da questi fieramente rivendicato a partire dagli anni Novanta come simbolo di una generazione nuova, moderna, trasgressiva, priva della perenne autocommiserazione dei suoi predecessori). Di norma fortemente influenzati dal cinema d’oltreoceano, i giovani registi turchi mostrano una straordinaria somiglianza con il cinema italo-americano degli anni Settanta e sono considerati i veri eredi del Nuovo Cinema Tedesco, soprattutto di Rainer Werner Fassbinder. Non fa eccezione Yilmaz Arslan (classe 1968), che aveva esordito con un cortometraggio dedicato proprio a RWF, e il cui Fratricide, presentato nel concorso internazionale al festival del cinema di Locarno, eleva a livello di tragedia classica il denominatore comune a tutta la sua generazione, ovvero la questione dell’identità culturale. Diversamente dalla maggior parte dei suoi colleghi (e curiosamente molto più simile alle sue pochissime colleghe registe) Arslan non indulge più di tanto sul ghettocentrismo in cui si muovono questi piccoli gangster di fine millennio, piuttosto analizza le ragioni di chi in Germania deve ancora ambientarsi, partendo dal luogo di origine, che non è più la Turchia ma il Kurdistan. È il caso di Azad, che parte per la Germania con i soldi inviatigli dal fratello, da lui disprezzato perché si guadagna da vivere sfruttando prostitute, ma che nella struttura di accoglienza trova un nuovo e più autentico fratello nell’undicenne orfano Ibo. I legami di sangue dovrebbero proteggere, ma in un mondo crudele e segnato dalla dura lotta per la sopravvivenza rendono invece più vulnerabili, e quindi non possono essere altro che motivo di violenza e morte. Articolando ulteriormente la vicenda sull’odio tra turchi e curdi, e inserendo per primo dei precisi riferimenti politici (il PKK non viene mai nominato, ma Ochalan occhieggia da un poster appeso dai rappresentanti del gruppo curdo, a cui Azad rimprovera di non occuparsi dei loro compatrioti all’estero finché non sono morti per farne degli eroi, anche se sono loro a tirarlo fuori dai guai più di una volta), Arslan disegna con asciuttezza una cupa faida la cui inevitabilità scatena una infinita serie di conseguenze sanguinose, senza sconti per lo spettatore e senza un filo di speranza per i suoi personaggi. Innocenti e colpevoli sono ben distinti a livello morale, ma le assurde leggi dell’onore mescolano le carte, annullando i confini tra bene e male e scatenando continuamente nuovi conflitti. Anche gli aspetti più grandguignoleschi (il pitbull che sbrana il suo padrone ferito da una coltellata, attratto dall’odore del sangue) non sono gratuiti ma l’ennesimo ricordarci che nella società dell’homo homini lupus la vera innocenza è quella del cane, non dell’uomo. Un film che sarebbe certo piaciuto a Fassbinder, ma probabilmente anche a Pasolini, a cui non a caso è dedicato.
[6 agosto 2005]
Regia e sceneggiatura: Ylmaz Arslan;
Fotografia: Jean-Francois Hensgens;
Montaggio: Andre Bedocchi-Alves;
Musica: Evgueni Galperine;
Interpreti: Xewat Gectan, Erdal Celik, Nurettin Celik, Bulent Buyukasik;
Produzione: Tarantula, Yilmaz Arslan Filmproduktion;
Origine: Germania 2005;
Durata: 90’
