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Conferenza stampa: Pupi Avati

Pubblicato il 3 marzo 2008 da Mario Bove


Conferenza stampa: Pupi Avati

Le origini geografiche spesso connotano la radice della nostra personalità e le tradizioni impregnano l’animo come un persistente odore di uva e terra umida di vendemmia. Capita così che il napoletano abbia un fare realmente teatrale dietro cui si celi un’indole drammatica e gioiosa allo stesso tempo, il milanese sia più rigido e composto, il romagnolo sia un naturale mattacchione da taverna.

Da romagnolo doc, brioso come il lambrusco, Pupi Avati non ha tardato a mostrare questo lato sconosciuto ai più, durante il terzo appuntamento di Filmidea nella mattinata di venerdì 22 febbraio all’Università di Salerno. Appassionante, divertente, pronto a raccontarsi senza risparmio di ironia e comicità, Avati ha tenuto in pugno gli studenti durante due ore dense di fatti e memorie. Come un mago da fiera itinerante, il regista ha dato prova delle sue abilità narrative affabulatorie, capaci di materializzare vivide immagini con le parole. Il regista, nelle sale con il Nascondiglio, ha offerto un escursus che, partendo dai primissimi esordi come aiuto regista, si è soffermato più su divertenti episodi di vita che sulla descrizione puntuale dei film. Un mondo personale aperto su alcuni capitoli salienti della vicenda personale dell’uomo come il momento in cui ha capito di non avere talento come musicista, l’inseguire e raggiungere il “secondo sogno”, quello di essere un regista, l’invito per gli studenti ad esprimere sempre e comunque la propria identità, l’indole e i desideri che caratterizzano ognuno, la sua smodata passione per le belle donne… Un appuntamento che ha divertito enormemente i presenti grazie al colore delle parole del regista, difficilmente compendiabili in poche righe.

Mentre la direzione della rassegna attende ancora la conferma della presenza di Spike Lee ad aprile, il prossimo appuntamento con Filmidea è fissato al 18 marzo con il cast di Io non ci casco più, film dell’attore e regista cavese Pasquale Falcone, già autore di Amore con la S maiuscola e Lista civica di provocazione. Saranno presenti Maria Grazia Cucinotta, interprete e produttrice della pellicola, Maurizio Casagrande, oltre che lo stesso regista.

Più desideroso di raccontarsi che di attendere le domande, Avati ha iniziato giocando d’anticipo e dando il via ad un flusso torrenziale di ricordi, belli e vividi, aneddoti che ognuno nel pubblico gli ha invidiato. E così l’aula delle lauree dell’Università di Salerno è stata proiettata a quel 12 settembre di quarant’anni fa, primo giorno del primo film di Avati, in un’Italia “che non assomiglia in nulla a quella di oggi. In quegli anni erano in piena attività ‘grandi maestri’ come Fellini, Visconti, Rossellini, De Sica… ”.
In poche parole ha riassunto tutta la differenza che sente fra gli esordi e la situazione attuale: “Decisi di entrare nel mondo del cinema dopo aver visto 8 ½. Ho iniziato a fare film quando se ne producevano circa 350 all’anno. Oggi se ne fanno appena 35, e questo tralasciando la qualità. Oggi è difficile trovare una nostra identità nazionale ed il cinema ha un’influenza minima su di essa. Ora, l’incontro col paese reale lo realizza la televisione. Il cinema ha perso la sfida e dalla televisione si è distaccata. La tv ha quindi sviluppato un suo cinema per così dire, che è la fiction”.

Vendendo gli studenti ancora un po’ intimiditi, il regista bolognese ha espresso quello che è il suo maggior desiderio ad ogni incontro: “Tutte le volte che vado da qualche parte a parlare, come oggi, mi chiedo che impatto avrò sulla vita di chi mi sta davanti. Mi piacerebbe che la vita di almeno una persona venisse resettata e che su di essa abbia un’influenza”.
Indossate le vesti di maestro di vita, ha iniziato a parlare della differenza fra il talento e la passione. Ha così rievocato i tempi in cui era un appassionato clarinettista jazz e vedeva se stesso come musicista di professione. “Quando avevo la vostra età pensavo bastasse avere un grande amore per qualcosa, nel mio caso per la musica. Col tempo capii che non era così e lo capii solo dal confronto. Pensavo di essere il migliore a Bologna nel mio campo, e per un periodo forse era anche vero. Ma poi vennero dei nuovi componenti nell’orchestra dove suonavo e dal confronto con loro capii che io non avevo un vero talento per la musica, ma solo una fortissima passione… ”.
Passando a corde più leggere, Avati ha poi iniziato a spronare i ragazzi “io sono qui per farvi capire i miei errori. Io ho realizzato il mio ‘secondo sogno’, visto che non avevo talento per farlo nella musica. Ma non bisogna mai smettere di cercare la propria realizzazione, il campo dove si può esprimere al massimo il proprio talento. Tutti sono dotati di un talento, bisogna scoprirlo ed esprimerlo. Dopo il fallimento musicale, mi dedicai per dieci anni alla conduzione di un’azienda di surgelati, ma non ero affatto soddisfatto e così iniziati a pensare al cinema. Ed ora,eccomi qui… ”.

Spazio poi ai piccoli ricordi di uomo-regista, con passaggi quasi macchiettistici sulla prima esperienza da direttore del set, alle prese con il film Balsamus, l’uomo di Satana. “Il film Satanik, al quale avevo collaborato come aiuto alla regia, mi diede un’esperienza di quattro settimane dopo la quale mi sentii autorizzato a fare il mio primo film. Ma ci vollero ancora un po’ di anni affinché questo avvenisse. La cosa di cui mi preoccupai di più quando fu il momento di iniziare il lavoro sul set fu come dovevo vestirmi. Pensai al cappotto, al cappello, alla sciarpa… Sembravo davvero un regista! Avevo chiara in mente la sequenza di parole da dire e me la ripetevo continuamente: SILENZIO! motore-ciak-azione-motore-ciak-azione-motore-ciak-azione… C’era un sacco di gente ad assistere alla ripresa e, quando fu il momento di girare, gridai: ‘SILENZIO SUL SET! CIAK!!’… Sbagliai tutto al primo avvio ed allora il mio assistente, Franco Delli Colli, mi disse in romanesco ‘nun te preoccupa’, er filme t’o famo noi…’ ”.

Altri divertenti affreschi sul suo rapporto con le donne: “A me son sempre piaciute le belle donne, ma quelle proprio belle… E’ stata una mia grande debolezza. Soprattutto davo un’importanza enorme alla parola ‘sempre’. Appena vedevo una donna bella, me ne innamoravo e la volevo subito sposare. Capite bene che questa era una cosa che invece intimoriva parecchio le ragazze… ”.
Ha poi aggiunto “Il mio rapporto con l’altro sesso nasce da una estrazione maschilista e da bar. Ho sempre pensato che l’amico fosse propedeutico all’amore per la donna della vita. Ma non penso che le persone della mia generazione possano raggiungere un grado di confidenza con la propria donna pari a quello che si ha con gli amici. Alla propria donna non si possono raccontare le insicurezze, i timori, perchè c’è sempre quella sensazione di dover mostrarsi saldi… ”

Altra lezione di stile quando ha raccontato di come una sua disavventura amorosa sia divenuta materiale per la scena di un film: “una sera uscii con una ragazza che proprio non mi voleva. Andammo ad un concerto jazz. Durante tutta la serata io cercai di tenerle la mano… E ci riuscii. Solo che lei da quella mano tirava via progressivamente tutta la vitalità, fino a farla diventare una fredda appendice morta, una protesi insensibile. Era come se per tutta la serata, prima e dopo l’intervallo, avessi stretto un pezzo di plastica. Quando l’accompagnai a casa”, ha proseguito inn un’escalation di humour, “titubante, cercai di baciarla e lei, con quell’abilità che solo alle donne è dato di avere, mi fece arrivare vicinissimo al suo viso, scansandomi impercettibilmente all’ultimo momento. Le baciai la spalla del cappotto, dopodiché lei entrò svelta nel portone e mi disse seccamente ‘grazie’. Io poi quella scena l’ho messa in un film però, e qui il motivo per cui io faccio il regista, lì la ragazza viene baciata!”.

Avati ha quindi posto provocatoriamente a se stesso un’auto-domanda, a beneficio del pubblico. “Mi dovreste chiedere ‘Ma come si fa ad esprimere la propria creatività?’” Qui ha sfoggiato tutta la sua capacità narrativa, confidando la paura dei racconti con cui la nonna lo metteva a letto: “Io ho avuto l’imprinting fortissimo della cultura contadina. Quando eravamo piccini, la nostra nonna ci raccontava delle storie terribili prima di dormire. Crescevamo terrorizzati. Si evocavano storie di persone che compivano azioni tremende come uccidere i genitori, amputare corpi, fantasmi che uccidevano… Il buio assoluto e profondo della campagna noi lo riempivamo con queste immagini di sangue e, ad ogni scricchiolio, pensavamo che i protagonisti delle storie della nonna stessero camminando per casa… Eravamo abituati, anche se nel terrore, ad esercitare la nostra fantasia. Ed è poi per questo che ho fatto film con quei titoli così… ”

Dopo tanto spontaneo raccontare di sé, spazio ad alcune domande di giornalisti e studenti. Essendo Avati un regista spesso cimentatosi nell’horror, gli è stato chiesto perché in Italia le produzioni non puntassero di più su questo genere, nonostante il favore del pubblico testimoniato dagli incassi delle pellicole straniere. “Io sono uno dei pochi autori che lo fanno, forse perché qui c’è una sorta di schizzinosità verso i generi. I registi italiani vogliono esse ‘autori’ riconoscibili e personali. Questa è una lezione appresa dal cinema d’autore francese. Ognuno tende ad essere riconoscibile come ‘genere di se stesso’, così, per esempio, Ermanno Olmi è ‘genere Olmi’. Oggi si punta molto sul nome dell’autore più che sulla spendibilità del genere… ”

In riferimento alla capacità di Avati nell’utilizzare attori in contesti totalmente diversi dalla loro classica estrazione, vedi Abatantuono, Boldi o Carlo delle Piane, passati da ruoli comici ad altri drammatici, gli è stata rivolta una domanda sul perché oggi non ci sia più questa tendenza a scovare nuove corde espressive per gli interpreti. “C’è molta pigrizia nei casting” ha criticamente riposto Avati. “Si vedono sempre gli stessi attori, non c’è voglia di stupirsi e di stupire. Nel mio ultimo film ancora in lavorazione, ho utilizzato Silvio Orlando e, per la prima volta, Ezio Greggio come attori drammatici. Ma molti altri prendono un nome, magari un attore che va di moda in quel momento, e gli fanno recitare sempre lo stesso ruolo fino a saturarlo. Si pensi adesso a Scamarcio, tempo fa era lo stesso per Accorsi… Non si vuole ricercare qualcosa di diverso, non si vuole stupire più.”

Avati ha usato anche alcune parole amare per il cinema sostenuto dallo Stato citando l’esperienza di Cinecittà Holding. “Quando ne ero presidente”, ha amaramente constatato, “mi accorsi di quanto male venissero investiti i soldi pubblici. Questi soldi sono sacri, vengono tratti dalle tasche dei cittadini. Le commissioni non funzionano perché spesso non ci sono persone competenti, ma amici di questo o quell’altro… Gente che non aveva nulla a che fare con un film realmente fatto. Erano tutte persone che, spesso, non erano riusciti a fare film… Me ne sono andato proprio perché non riuscivo più a sopportarlo e a lavorare bene.”.

Ultimo pensiero per l’avventura che lo ha portato a contatto con Pasolini per Salò, le 120 giornate di Sodoma, suo ultimo film prima di morire. “Collaborando con Pasolini ho capito quanto sia più facile lavorare con un grande autore piuttosto che con un regista qualsiasi. Un artista come lui riesce a trasmetterti la sua visione del mondo, la verità di cui è portatore, una visione chiara che una persona normale non ha solitamente. Pasolini non conosceva l’opera originale di De Sade e, dovendoci lavorare, ne chiese una copia. Io avevo già scritto una sceneggiatura per le 120 giornate di Sodoma che lui aveva letto ma che non gli era piaciuta. Il film inizialmente lo doveva fare Citti, ma poi volle farlo Pasolini stesso. Gli portai il libro e quella fu la mia prima occasione per parlargli. Solo alcuni anni più tardi iniziammo la preparazione del film, ma anche la mia seconda sceneggiatura fu cambiata e Pasolini la rese una cosa diversa, scioccante e problematica. Durante la lavorazione del film, questa tensione dovuta ai tanti momenti duri previsti nelle scene era sempre nell’aria. Da allora mi risultò difficile pensare di poter vedere quel film. Ed infatti, non l’ho mai visto.”



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