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Considerazioni sul Tff 2007

Pubblicato il 9 dicembre 2007 da Salvatore Salviano Miceli


Considerazioni sul Tff 2007

La scelta di mettere Nanni Moretti alla direzione del Torino Film Festival, con tutte le polemiche e le conseguenze abbondantemente note, è stato un segnale ben preciso, un contropiede, vedremo se più o meno riuscito, nei confronti di Venezia e soprattutto della potente Festa del Cinema di Roma. Perché, pur trattandosi di dimensioni e realtà diverse, è innegabile che l’entrata in scena della kermesse capitolina abbia complicato non poco il meccanismo di selezione e reperibilità delle pellicole.
Fatta la doverosa premessa, tocca ora concentrarsi sull’aspetto più importante, quello relativo ai film proposti. Due le retrospettive, entrambe piuttosto corpose ed abbastanza seguite. Rivedere sul grande schermo i lavori di John Cassavetes (sia come attore che come regista) ha riservato più di un’emozione. Pellicole come Shadows o Faces lasciano ancora oggi senza fiato. Eguale successo ha ottenuto l’altra personale dedicata a Wim Wenders, accompagnata dall’incontro, che grande eco ha avuto, tra lo stesso regista tedesco e il Moretti Direttore. Bella e, ci sentiamo di dire, pienamente riuscita la sezione L’amore degli inizi, breve appendice degli esordi cinematografici, seguiti dalle discussioni con il pubblico, di sei grandi autori del cinema italiano. Si è iniziato con Rosi (La Sfida), Florestano Vancini (La lunga notte del’43), Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini (Un uomo da bruciare), Gianfranco de Bosio (Il Terrorista) e Tinto Brass (Chi lavora è perduto), vero coup de theatre e, senza dubbio, tra gli incontri più seguiti.
Il concorso ufficiale ha riservato un programma piuttosto eterogeneo. Ha vinto Garage dell’irlandese Lenny Abrahamson, film già apprezzato a Cannes (è il secondo anno consecutivo che a primeggiare è un film proveniente dalla selezione francese), storia delicata di una strana amicizia nella campagna irlandese. The Elephant and the sea di Woo Ming Jin, coproduzione tra Malesia ed Olanda, si è aggiudicato il premio speciale della giuria, ma non ha convinto del tutto, echeggiando, ma senza le necessaria forza, le atmosfere care ad un altro grande cineasta malese, Tsai Ming Liang. Noi abbiamo preferito il coreano The Railroad di Park Heung-Sik, vincitore del premio Fipresci, melodramma abbastanza ben confezionato. È mancata la pellicola che facesse urlare al capolavoro, ma il livello medio è stato piuttosto buono. Su tutti, due film tra loro assai diversi ma entrambi meritevoli di attenzione sono stati Lino, piccola produzione francese di Jean Louis Milesi, che ha colpito per la leggerezza e la semplicità della sua messa in scena e Lars and the real girl di Craig Gillespie, commedia statunitense agrodolce molto ben scritta e girata, e con un Ryan Gosling in stato di grazia come protagonista.
La neonata sezione Lo Stato delle cose ha raccolto, tra diversi formati e generi, dodici opere aventi tutte lo stesso comune denominatore, la realtà filtrata dallo sguardo cinematografico, da un linguaggio che, riprendendo le dichiarazioni di Emanuela Martini, "rappresenta il più importante corpo immaginario al quale rivolgersi per colmare le lacune che ci separano da un presente confuso e difficilmente decodificabile". Bello il documentario Lynch di blackANDwhite, pseudonimo del reale autore, che ritrae il regista prima durante la lavorazione e le riprese di Inland Empire e poi nella sua sfera più intima e personale. Ugualmente riuscito il lavoro di Debbie Melnyk e Rick Caine, Manufacturing Dissent, su Michael Moore. Il duo registico lancia parecchie accuse all’autore di Roger and Me contestandogli un modo di rapportarsi al reale più simile alla manipolazione che non alla verità. Non lascia indifferenti neanche Joe Strummer: the future is unwritten, di Julian Temple. È un lungo omaggio allo storico leader dei Clash, morto nel 2002. Sullo schermo, raccolti attorno ad un falò, passano volti noti della musica e del cinema, chiamati a raccontare la personalità di una delle più controverse ed amate icone del rock.
La Zona è probabilmente la filiazione di Detour, storica sezione delle precedenti edizioni del Festival. Vi troviamo quarantuno lavori suddivisi in quindici programmi. È una riflessione sulla soggettività dello sguardo cinematografico, sulla possibilità di un cinema che dialoga e si interroga sulla sua stessa essenza, un cinema che narra ed unisce, che procede per similitudine o per feroci cesure. Una sezione difficile da raccontare per la moltitudine di linguaggi e di opere proposte ma che si sintetizza assai bene in Ghiro Ghiro Tondo di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, insieme sguardo sull’infanzia e sulla condizione umana.
Italiana.Doc ha visto primeggiare il bel documentario di Esmeralda Calabria e Andrea D’Ambrosio, Biùtiful Cauntri, forte resoconto del disastro ambientale vissuto in Campania, una delle regioni italiane con il maggior numero di discariche abusive. Nella stessa sezione, da segnalare ABC Colombia di Enrica Colosso e L’esame di Xhodi dei fratelli torinesi Gianluca e Massimo De Serio, vincitore del premio speciale della giuria.
Tra le pellicole presentate in anteprima nazionale e quelle fuori concorso, Aleksandra di Sokurov merita una sottolineatura. In competizione a Cannes avrebbe meritato altra considerazione. Non dispiacciono anche Irina Palm di Sam Garbaski, sospeso tra dramma e commedia, e Lascia perdere, Johnny, atteso esordio alla regia di Fabrizio Bentivoglio.
In Panorama Italiano, sezione creata ad hoc, troviamo il bel film di Alina Marazzi Vogliamo anche le rose, il premio Cipputi In fabbrica di Francesca Comencini, Nelle tue mani di Peter del Monte e Signorina Effe di Wilma Labate.
È stato un Festival che ha generato polemiche, alcune sterili altre più giustificate, che ha diviso critici e spettatori, che ha messo in mostra pellicole interessanti ma forse meno originali del solito. Sicuramente, è un dato piuttosto incontrovertibile, ha avuto una risonanza ed una copertura mediatica assai più rilevanti del recente passato. Il neodirettore Moretti ha saputo trasformarsi in personaggio quando l’occasione si prestava, senza eccessi di protagonismo ma difendendo una creatura che ha mostrato sentire già sua. Fare paragoni con le edizioni passate potrebbe essere un giochino simpatico ma alla fine privo di consistenza. Sono linee editoriali diverse, scelte, per struttura e semantica, intimamente differenti. È sparito il genere, questo lo si può dire. L’horror che ha sempre ricoperto un ruolo particolare all’ombra della mole, quest’anno non è pervenuto.
Chiamato però a chiudere il Festival è stato Eastern Promises di David Cronenberg, autore geniale, creatore di splendidi e tortuosi paesaggi visivi, che qualcosa al macabro ha spesso concesso. Che non sia semplicemente una coincidenza?


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