Dance for me

Esterno giorno. Campo medio su un parco londinese. Tre ragazzi sono seduti su una panchina. La macchina da presa li sorprende di spalle, in un momento di ozio sfaccendato.
Due sono ragazzi di colore. Il primo, più corpulento, canticchia una canzone rap ed è seduto sulla spalliera della panchina con una vaga aria da boss. Il secondo, più piccolino, gli fa eco imitando il suono elettrico delle percussioni con la voce. Completa il trio una ragazza che interpretiamo immediatamente come fidanzata bianca del bulletto di quartiere. Pallida in viso, ma dark negli abiti e nei modi, ascolta la canzone godendosi il sole e anelando per un accendino con cui dar fuoco alla cicca che si rigira tra le mani.
Nel giro di poche inquadrature, Nathan Small e Luke Tredget, i registi di questo piccolo corto, hanno messo in bella fila tutta una serie di stereotipi e ce li hanno presentati aspettandosi la reazione automatica di uno spettatore abituato a tirare somme frettolose.
La canzone canticchiata, infatti, è già di suo aggressiva e tosta e ci predispone ad un racconto di strada, potenzialmente violento e dai toni forti. Il ritmare veloce del testo, poi, disegna, con poche parole, un contesto sociale impoverito. Impressione acuita dal fatto che la ragazza non abbia neanche un accendino e gli unici passanti a cui sarebbe possibile chiedere si tengono ben lontani dalla panchina, ma non abbastanza dagli apprezzamenti del "boss".
Tutto quello che pensa lo spettatore deve essere quello che pensa un ragazzo che, portando a spasso il cane, ha la sventura di passare troppo vicino alla panchina.
Biondino, con barbetta lunga, ma non curata, una tuta da ginnastica e poca fretta nelle tasche, il giovane ha una sigaretta in mano ed è quindi scontato che la ragazza gli chieda se ha un accendino. Una collisione tra due mondi è quindi necessaria.
Il breve gioco di campi e controcampi che segue è forse il momento più consapevole del corto. Dapprima un campo medio, soggettiva dalla panchina, ci mostra il ragazzo che si avvicina. Qui la macchina ferma, su cavalletto, e la voice over del boss creano un’immediata impressione di inquietudine, attivando un larvale meccanismo di suspense. Segue un controcampo alle spalle del nuovo arrivato in cui una più instabile macchina a mano definisce un senso di precarietà amplificato dal successivo primo piano del ragazzo che cerca di far finta di non notare il terzetto sulla panchina. Un tentativo di non guardare che continua anche dopo, quando la ragazza ha ormai chiesto l’accendino e il ragazzo tenta di accenderla guardando altrove.
L’incontro tra i personaggi è, quindi, sin dall’inizio all’insegna di una serie di sguardi negati. Il ragazzo, come lo spettatore, ha già giudicato ed etichettato quel terzetto e ne ha una certa paura, nonostante la bella giornata di sole e l’impressione di tranquillità in giro.
Il dialogo che ne sortisce è all’insegno dell’incomprensione. Veloce e spiazzante.
Nel tentativo di accenderle la sigaretta con gli occhi bassi e perennemente in cerca di un altrove, il ragazzo quasi le brucia il viso. La ragazza reagisce piccata prendendo lei l’accendino e poi decidendo di intascarlo quasi per punizione. Da parte sua il boss scende dalla sua posizione sopraelevata e sembra farsi minaccioso al punto che, con un tono quasi supplichevole il nuovo venuto non tenta il tutto per tutto dicendo che non ha soldi.
“Con quelle scarpe che ti ritrovi ai piedi, dovrei essere io a fare l’elemosina a te” rimbrotta l’altro denunciando con questo non solo il razzismo con cui il biondino l’aveva fino a quel punto guardato, ma soprattutto quello dello spettatore che è obbligato a confrontarsi con gli stereotipi con cui il cinema gli racconta il mondo.
Il gioco delle inquadrature è quindi allusivo ed esplicativo al tempo stesso. Racconta con piana linearità cosa succede, ma permette al tempo stesso allo spettatore di interpretare quello che vede non come un semplice dialogo tra sconosciuti, ma come l’inizio di un potenziale dramma da cronaca nera.
In questa doppia posizione il corto assume un valore di denuncia assai intrigante. Nel metterci di fronte alla nostra abitudine a categorizzare l’altro, smaschera il nostro sostanziale e spesso inconsapevole razzismo e quando l’intero meccanismo della narrazione scivola in un surrealistico nulla di fatto (non sapendo che altro chiedere al biondino, il ragazzo di colore gli intima, infine, quasi per sfida, di ballare per lui) ogni aspettativa è destablizzata.
Frattanto il biondino balla davvero, dapprima impacciato e poi più sciolto, e sui suoi movimenti prende corpo la possibilità di un conoscersi meno scontato, goffo, ma più autentico.
Sostenuto da attori molto bravi (Luke Newberry, il biondino, sostiene ottimamente il suo ruolo più ambiguo e mosso), il corto più che una presa di coscienza costruisce un’epifania del banale e lascia allo spettatore tutto il compito di capire e finalmente riuscire ad andare oltre.
Tweeting: Un piccolo pamplhet su razzismo e intolleranza chiuso nella banalità del quotidiano.
Whereto: Su Youtube qui Edizione inglese senza sottotitoli.
(Dance for me); Regia: Nathan Small & Luke Tredget; sceneggiatura: Nathan Small & Luke Tredget; fotografia: Jonas Mortensen; montaggio: Quin Williams tenthree; interpreti: Jonathan Livingstone, Luke Newberry, Faye Daveney, Seshie Henry; produzione: Jamie Clark and Robert Emms; origine: UK, 2013; durata: 5’
