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DARATT

Pubblicato il 23 maggio 2007 da Matteo Botrugno


DARATT

Vincitrice del Gran Premio della Giuria all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, approda nelle nostre sale l’opera di Mahamat-Saleh Haroun, interessante autore del Ciad. Ci viene proposta la storia di un ragazzo e di un ex soldato che si muovono sullo sfondo di un momento particolarmente delicato per la storia della repubblica centrafricana: l’amnistia verso i criminali di guerra, al termine dei conflitti intestini durati dal 1965 ai giorni nostri.
L’orfano Afim viene inviato dal nonno a cercare e ad eliminare l’uomo che anni prima aveva ucciso suo padre. Lo trova, ma s’instaura tra i due un rapporto particolare che porterà poi il giovane a risparmiarlo. L’intento di Haroun risulta più che chiaro. La violenza, dopo decine di anni di guerra civile è inutile e non porta a nulla. Il perdono e la redenzione rendono gli uomini liberi: dal ragazzo in cerca di vendetta e con l’unico desiderio di scacciare le ombre che gli attanagliano l’animo, fino al più sanguinario, come l’uomo che dà una casa ed un lavoro ad Afim. Il rapporto che si crea fra i due è sostanzialmente fatto di gesti, a volte violenti, e di poche parole. Il ragazzo non parla mai se non con la giovane moglie dell’uomo; il criminale invece, ormai invecchiato e malato, è muto e costretto a parlare con un piccolo microfono appoggiato alla gola.
Il silenzio quindi è la componente fondamentale di un’amicizia che successivamente diverrà una distorsione del rapporto padre-figlio. Afim ha perso il padre in guerra, l’uomo invece non vedrà mai nascere il suo bambino, e ne soffre a tal punto da prendere la decisione di voler adottare il ragazzo. Afim, d’altra parte, sembra aver paura di quell’uomo che giorno dopo giorno diventa la proiezione del padre che non ha mai visto, e a cui allo stesso tempo non riesce a dare il colpo di grazia. La mano trema, come se effettivamente si trattasse del proprio genitore. Dentro di sé un peso, immaginato visivamente come un’ombra nera che lo riempie di rabbia, e lo rende asociale e scontroso con chiunque gli si presenti davanti. Ma la rabbia a volte si sconfigge col perdono: decidendo di salvare la vita all’uomo, Afim ritrova la pace dopo una lunga sofferenza interiore.
Il problema del film è una sostanziale presenza di tempi morti non funzionali alla giusta fruibilità del racconto. Trasformare silenzio, tormento ed angoscia in immagini, non è sicuramente impresa di poco conto e in alcune sequenze il regista africano riesce anche a centrare l’obiettivo, specialmente quando pazientemente l’ex soldato insegna al ragazzo il mestiere del panettiere. Ma il lavoro fatica a decollare, rimanendo a volte freddo e distaccato e, soprattutto, non sembra in grado di comunicare adeguatamente un messaggio che in partenza risultava sicuramente affascinante.
Ci auguriamo comunque che venga dato più spazio al cinema di paesi africani spesso ‘dimenticati’ non solo dai festival, ma anche dai paesi occidentali. Il cinema è un veicolo per mandare messaggi universali e per permettere a chiunque di conoscere culture diverse e rispettarle. Haroun ha diretto un film di forte impatto dal punto di vista dei valori portati avanti, ma imperfetto tecnicamente e dal punto di vista della costruzione dei personaggi, che risultano a volte piatti e monotoni. Ma ora sappiamo qualcosa in più di una nazione divisa e devastata da guerre civili e povertà, e di questo, naturalmente, siamo grati.


CAST & CREDITS

Regia, soggetto e sceneggiatura: Mahamat-Saleh Haroun; fotografia: Abraham Haile Biru, montaggio: Marie-Helene Dozo; musica: Wasis Diop; interpreti: Ali Bacha Barkai (Atim), Youssouf Djaoro (Nassara), Aziza Hisseine (Aicha); produzione:Abderrahmane Sissako, Chinquitty Films, Goi-Goi Production; origine: Ciad 2006; durata: 95’.


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