DIARIO DI UNO SCANDALO

Sembrava che Diario di uno scandalo, a dispetto del titolo da rotocalco rosa, fosse indenne dalle derive di genere in cui tende a incappare oggi la maggior parte dei film in sala; un inizio pungente, con l’introduzione nel grigio ambiente scolastico di una Londra periferica da parte di un personaggio altrettanto secco e acuto, attraverso cui leggere la realtà presentata dal film.
In effetti per almeno mezz’ora è davvero così: Barbara, interpretata da Judy Dench, irreprensibile insegnante avanti con gli anni, annota sul suo diario e racconta allo spettatore un mondo gretto, meschino, che rigetta ma di cui vorrebbe far parte.
Il suo personaggio si situa a metà tra i flaneurs esistenzialisti, i solitari e i reietti di tanto cinema americano ed europeo e la Virginia Woolf di The Hours, richiamata apertamente a modello nel corso della pellicola. Anche la sua fascinazione per Sheba, l’algida professoressa di arte interpretata da un’insolitamente fragile Cate Blanchett, vive di queste contraddizioni, di disprezzo e desiderio, o più probabilmente invidia, verso una giovane donna apparentemente privilegiata, bella, ricca, amata dalla famiglia.
Con queste premesse il film avrebbe potuto essere giocato tutto in soggettività, andando a scavare nell’estrema solitudine di Barbara che la Dench tratteggia così bene; perché la pecca maggiore di Eyre appare proprio la mancata comprensione del materiale a disposizione, incredibilmente sprecato con la scelta banale e ovvia di un semi-thriller che finisce per risolversi in un ’duello’ di recitazione, quello sì splendidamente portato avanti dalle due interpreti.
La memoria corre allora indietro nel tempo, a una pellicola che già mostrava il lato psicotico dell’amicizia femminile, spesso morbosa, ambigua, giocata sull’emulazione e sul possesso dell’altra: Inserzione pericolosa di Barbet Scrhoeder che se non altro svelava apertamente la propria matrice di genere alzando il livello di pathos e tensione. Diario di uno scandalo è invece privo di qualunque climax emotivo e non fa che ripetere gli stessi accordi mentre il compito di Philip Glass, che tenta di sottolineare con la sua musica i momenti rilevanti, si fa sempre più difficile.
Dopo voltapagine assetate di vendetta fa capolino anche qui la sempre velata omosessualità femminile, evidentemente ancora tabu per molti ‘autori’; che, non esitando a infarcire di simpatiche macchiette gay ogni commedia da qualche anno a questa parte, riservano ai personaggi femminili in odor di lesbismo morbosità d’ogni genere o derive sociopatiche.
Questo il trattamento destinato al personaggio di Judy Dench, che, pieno di potenzialità, finisce per diventare l’ennesima lesbica ossessionata e nulla di più. Allo stesso modo il film, da diario di un’alienazione lacerante, di una solitudine soffocante, appare soltanto trasposizione romanzata di uno di quei tipici casi di cronaca che ogni tanto scandalizza i puritani tabloid britannici.
Peccato per lo sceneggiatore Marber – autore della piéce e del relativo adattamento cinematografico dell’ottimo Closer di Mike Nichols – in cui le ossessioni e i tormenti dei personaggi dominavano realmente la scena senza timore di annoiare ma che dinanzi al romanzo di Zoë Heller deve piegarsi a finalità narrative evidentemente non nelle sue corde.
(Notes on a scandal) Regia: Richard Eyre; soggetto: Zoë Heller; sceneggiatura: Patrick Marber ; fotografia: Chris Menges ; montaggio: Antonia Van Drimmelen e John Bloom; musiche: Philip Glass; scenografia: Tim Hatley; interpreti: Cate Blanchett (Sheba), Judy Dench (Barbara); produzione: BBC Films / DNA Films / Scott Rudin Productions; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Gran Bretagna; durata: 92’; web info: sito ufficiale
