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DIO È UN EXTRATERRESTRE (Nota sul film SIGNS, di M. Night Shyamalan)

Pubblicato il 15 aprile 2020 da Anton Giulio Onofri


DIO È UN EXTRATERRESTRE (Nota sul film SIGNS, di M. Night Shyamalan)

Settimo appuntamento con la rubrica #iorestoacasaecritico: è ora la volta di Signs, di M Night Shyamalan, perfetto, a pensarci su un momento, per una lettura post-pasquale ai tempi della pandemia. Spazio, allora, alla penna di Anton Giulio Onofri.

Posto che l’incipit di Eyes Wide Shut ha definitivamente stabilito che cos’è il cinema per questo nuovo secolo agli albori (schermo nero, stacco su Nicole Kidman nuda di spalle che si aggiusta il reggiseno, di nuovo schermo nero; ovvero: occhi chiusi, occhi aperti / visione della Kidman, occhi di nuovo chiusi), e cioè chi decide cosa e quando vedere, e cosa e quando non vedere (chi? il regista,naturalmente. Vero, unico Dio che crea e distrugge come burattini in suo potere i personaggi del film, e che decide cosa far vedere o non far vedere agli spettatori in sala), andiamo a parlare di Signs. Che ci si trovi in area "cult" lo si intuisce immediatamente dalla primissima inquadratura, apparentemente fissa, dove da una finestra vediamo il giardino di una casa americana di campagna. Poi la macchina da presa si sposta all’indietro, e percepiamo delle increspature sull’immagine, che si muovono insieme al movimento di macchina. Comprendiamo subito che stavamo osservando quel giardino dalla finestra chiusa, e che quelle sono le increspature del vetro messo tra noi e l’immagine che credevamo di vedere pura, pulita. Invece c’era un vetro. Un vetro trasparente, attraverso il quale era possibile vedere cosa c’era dall’altra parte (un prato, un’altalena, la cuccia dei cani), senza sapere però di vedere anche lui, il vetro. Come lo schermo del cinema. Quello schermo che il don Chisciotte di Orson Welles squarcia con la sua lancia scambiandolo per dei veri mulini a vento, proiettati su quello schermo, e dunque apparentemente autentici. Ma in realtà finti. Di vero, c’è solo lo schermo, che resta infatti squarciato. Ma per rendersi conto che di uno schermo si tratta, è necessario che don Chisciotte lo squarci. M. Night Shyamalan è ancora più sottile: per farci vedere che tra noi e l’immagine che stiamo osservando c’è un corpo solido di cui non percepiamo la presenza, che fa? muove la macchina da presa, che nel suo movimento non può non registrare le imperfezioni del vetro. Il regista/Dio decide quindi di farci vedere (finalmente) qualcosa che effettivamente stavamo guardando (perché era lì, davanti a noi, fra noi e il giardino), ma che non sapevamo di vedere: il vetro della finestra. E come decide di farcelo vedere? con il CINEMA, cioè con il "movimento" (kìnema, in greco antico) della macchina da presa. Il cinema infatti è la bacchetta magica che dà al regista/Dio il potere di farci vedere quello che vuole lui. Ma andiamo avanti.
Anzi indietro.
Torniamo a quegli anni ("felici"?) in cui il mondo, inteso come pianeta Terra, non ancora abbastanza distratto dalla propria terrestre tragedia, scrutava il cielo per domandarsi quello che per altro non ha mai smesso di chiedersi: siamo soli, o c’è qualcun altro lassù, oltre le nuvole? Chiunque ci fosse, non sono mai mancati segnali (signs) della presenza di qualcuno, che comunque non si faceva vedere. Oppure si faceva vedere solo da chi voleva lui. E dunque a quelli che avevano visto la madonna (Carmelo Bene li chiamava "imbecilli") seguirono ben presto quelli che avevano visto i dischi volanti. Pochi fortunati. Ma vero o falso che fosse, aveva poca importanza. A quel punto TUTTI volevano vedere. E insieme al desiderio di vedere, è nata anche la paura di vedere. Chi? Che cosa?
Niente.
Nessuno, infatti, ha mai visto niente. Segni, quanti se ne vuole. Ma cosa questi segni segnalassero, no: niente e nessuno. È forse stata questa delusione la causa del progressivo disinteresse del mondo per l’eventuale presenza di altri esseri viventi nell’universo. Ma finché duravano quella paura e quel desiderio, il mondo poté permettersi di restare ragazzino, e di abbandonarsi con tutta la sua adolescenziale ingenuità al sogno e all’invenzione di creature simili all’uomo, magari più intelligenti di lui - se si deve aver paura, deve essere sempre per qualcuno di superiore - e chi meglio del cinema poteva dar corpo (il cinema solo può veramente dare un corpo alle nostre fantasie, capace com’è di volare ovunque nello spazio grazie alla sua non reale, sur-reale bidimensionalità) a questa paura e a questo desiderio? La stagione del cinema popolare degli anni ’50 e ’60 pullula di film a basso costo, ma di immensa forza evocatrice, popolati di extraterrestri in tuta bianco-lucida, o con pelli coriacee e dalle sembianze zoomorfe. Il mito degli Ufo, dell’attacco alla terra, della distruzione del pianeta ad opera di alieni ostili, raggiunse il suo apice nei cinematografi di tutto il mondo. La televisione, con la sua presunta vita in diretta, ancora non esisteva. Ci si poteva dunque concedere il lusso - e il divertimento - di desiderare e avere paura dell’abbaglio, ancora più abbagliante nel buio della sala, del raggio laser.
A quell’epoca d’oro Shyamalan guarda con nostalgia, e immerge tutto il suo film in quella stessa aura da serie B che si respira nella provincia americana, dove si vive dei prodotti della terra (appesa ad un muro della casa si nota una riproduzione dei contadini in preghiera di Millet), e i personaggi ragionano e si esprimono attraverso procedimenti di pensiero semplici e lineari, come l’avvicendarsi delle stagioni, che scandisce i tempi della semina e del raccolto. In pratica: della vita. Siamo - per restare nel contemporaneo - in zona Lynch, per intenderci. La farmacista che vuole confessare al non più reverendo le parolacce dette e che ha scrupolosamente contate una per una, il libraio infastidito dai telegiornali infarciti di spot pubblicitari (quello della Coca-Cola che a tutto schermo invade anche il film, non appena la bambina ha rifiutato di bere l’acqua perché contaminata!...) sembrano usciti da Twin Peaks. Così come dentro Twin Peaks potremmo trovare oggi qualcuno che in anni ormai distanti si poteva incontrare in zona Kubrick: il militare dell’ufficio reclutamento direttamente preso in prestito dal Comandante Jack D.Ripper del Dottor Stranamore (omaggio! omaggio!), ossessionato lui dagli extraterrestri, l’altro dai comunisti: comunque, il nemico.
I due ragazzini - straordinari, specie la bambina, così lontana dagli standard infantili statunitensi, e strana non solo per la sua ossessione dell’acqua contaminata, ma per quel suo taglio d’occhi, così poco "americano", e dunque così universale... - e l’inquieto fratello minore dello spretato protagonista covano dentro quella scomoda, archetipica condanna interiore così sgradita al cinema Usa di serie A, dove invece finisce sempre per trionfare la normalità. Mai, invece, tornerà normale Joaquin Phoenix, il cui colpo di mazza ben assestato libererà per sempre la sua famiglia dal pericolo, ma mai gli restituirà la serenità perduta in seguito al suo fatale errore sui campi da gioco. Mai tornerà normale la bambina, che continuerà a disseminare per tutta la casa bicchieri d’acqua sorseggiati appena una volta ciascuno. Mai guarirà dall’asma (malattia dalla quale raramente si guarisce del tutto) il ragazzino sopravvissuto al veleno grazie alla crisi respiratoria che gli ha chiuso i polmoni. La normalità, infatti, non serve al cinema. Quando tutto diventa normale il film finisce. Il cinema finisce. E chi ama il cinema, non vuole che finisca mai. Per questo ci sarà sempre una mazza da baseball a disposizione appesa al muro. Per questo i ripiani dei mobili di casa saranno sempre stipati di bicchieri mezzi pieni, in caso di marziano idrofobo. Perché le ossessioni servono a creare i fantasmi, ma pure a fornire gli strumenti per distruggerli...
Ed è qui che entra in ballo Dio. Non quello in cui non crede più Mel Gibson, che infatti si è spretato. Ma il solo vero Dio del cinema, e cioè il regista, l’autore più autore di tutti (proprio come Dio) del film. Il film, come il Creato, si vede. Il regista, come Dio, no. Ma manda segni. Pensate al monolite nero di 2001. Così ha inizio la storia. Anche quella con la esse maiuscola.

Segni. Spettacolari. Enormi di-Segni geometrici tracciati da entità sconosciute nel campo di granoturco davanti a casa, e visibili (dunque loro - i protagonisti - non possono vederli) soltanto dall’alto. Il gioco del regista/Dio inizia con una mossa in favore di noi spettatori, che grazie ad una zoomata ad allargare contempliamo dall’alto il di-segno nella sua interezza. Si procede con il nascondino dei presunti autori del disegno: né a noi né ai nostri eroi (così li chiameremo d’ora in poi) è concesso vederli con chiarezza, mimetizzati e nascosti tra le fitte pannocchie del campo. Sarà la televisione a dare un’idea del fenomeno, per quanto inspiegabile: i nostri eroi, infatti, vedono per intero - così come li avevamo già visti noi spettatori (ce li aveva fatti vedere lui, il regista/Dio) - gli enormi di-segni tracciati un po’ dovunque per tutto il pianeta in un servizio del tg trasmesso dal piccolo schermo. E sarà sempre - e solo - il piccolo schermo a diffondere le inquietanti notizie del progressivo avvicinamento della flotta di astronavi extraterrestri al pianeta, non si sa con quali intenzioni. Panico e spavento dei bambini. Papà Gibson che fa? decide (Dio, non certo quello a cui lui non crede più, gli concede di usare il suo famoso superpotere) di spegnere la televisione per non farla vedere ai bambini. Ma si ha più paura quando si vede, o quando non si vede? La risposta è scontata. I segnali (che non si vedono, ma si sentono) della presenza di alieni si moltiplicano, e dunque si riaccende la Tv. Per i nostri eroi è come riprendere la visione del film a metà del secondo tempo. La storia è andata avanti, anche se loro si sono temporaneamente rifiutati di vederla alla televisione. E noi spettatori? Noi che a dispetto dei nostri eroi avevamo avuto il privilegio di vedere i di-segni dall’alto? Tutto lì, il nostro vantaggio? Come mai ora, alla stregua dei protagonisti del film, dobbiamo accontentarci (se vogliamo continuare a giocare...) di sapere (vedere...) cosa succede soltanto attraverso il piccolo schermo, che promette e non mantiene, che un po’ mostra un po’ no, che fa sembrare tutto così piccolo e poco spettacolare? Noi, che ci aspettavamo Independence Day parte seconda… Ecco. Cominciamo a perdere colpi. Il punteggio del padrone assoluto del gioco non fa che aumentare in suo favore. Da adesso in poi è lui che decide di farci (essenzialmente: non farci) vedere quello che vuole. Ci tiene chiusi in casa, insieme ai nostri eroi. Tra le quattro mura, seduti davanti al televisore. Mentre là fuori, nel mondo, i marziani impazzano. Ma insomma - ci si chiede - il cinema dove sta? qui dentro, o là fuori? ...La risposta è scontata anche stavolta.
E finalmente, anche se Dio decide di farcene vedere solo un pezzettino (qualche dito tranciato di netto) e per pochi, fulminei istanti, arriva anche nel nostro film (quello che stiamo vedendo, non quello che accade là fuori, restituito dalla televisione in veste di cronaca, reportage, girato amatoriale pagato a peso d’oro dal CNN… la vita in diretta non è MAI cinema!) questo benedetto marziano. Ma niente da fare. I nostri eroi decidono di barricarsi in casa. Complici del regista/Dio, anche loro fanno di tutto per non farci vedere niente. Sprangano porte e finestre. Per risparmiare le pile delle torce, decidono addirittura di spegnerle del tutto. La scena piomba nel buio assoluto. Non vediamo più niente, né noi né loro. Ma il cinema dov’è, se non si vede niente?
Quando arrivano a inchiodare una panca di legno sull’occhio della macchina da presa, annullandoci definitivamente la visione, un dubbio inizia a torturarci. Non vogliono farsi vedere dagli extraterrestri che tentano di introdursi in casa loro. Intrusi: così nei titoli di coda, come leggeremo più tardi, vengono chiamati gli alieni. Stai a vedere che... gli Intrusi siamo proprio noi? Siamo noi i pericolosi extraterrestri che minacciano la vita degli eroi del film? Nella scena finale, tra le più dense di cinema viste negli ultimi anni, l’alieno idrofobo soccombe tramortito dal colpo della mazza da baseball, e investito dall’acqua che dai tanti bicchieri lasciati in giro dalla bambina gli cade sugli occhi. La sequenza è in soggettiva: dunque l’acqua cade sui nostri occhi. A conferma che siamo noi gli alieni, i rompiscatole assetati di quella visione che per tutto il film ci è stata progressivamente ridotta, inibita, e infine negata del tutto, puniti con la cecità, cioè la condanna peggiore: l’impossibilità di vedere.
Liberi finalmente dalla schiavitù del nostro sguardo, gli eroi del film si ritrovano a vivere in un mondo che a questo punto è tutto loro, che esiste non perché lo vediamo noi, come nella nostra presunzione di spettatori crediamo che sia il cinema. L’alieno, nel film, è reale non certo perché la sua immagine si riflette nello schermo (spento!) del televisore. Il velo (di Maya? Dopotutto Shyamalan è di origine indiana…) che rendeva invisibili i segni, è stato squarciato: il vetro della finestra iniziale, infatti, è ora infranto. Via libera alla visione. Non la nostra, ma quella del protagonista. Che torna a indossare la tonaca perché Dio esiste. Lui lo ha visto. Quale Dio? Lui, proprio lui: Dio Padre, creatore del cielo e della terra, e di quant’altro si vede in un film - effetti speciali compresi - che ha deciso finalmente di farsi vedere. Non da noi, ma dall’eroe di un film. Noi, come quel vetro, non sappiamo di vederlo. Per vederlo, basterebbe aver fede. O magari anche solo entrare in un cinema.


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