Freeman - Antonioni: due sentieri nel bosco delle immagini
“Fate a meno della realtà e non farete mai un quadro mal riuscito.”
Alberto Giacometti
Jorge Luis Borges concepiva nel Sentiero dei giardini che si biforcano un delitto il cui unico movente risulta essere quello di lanciare un segnale in codice per un’operazione di spionaggio bellico, oltre che rivelarsi lo spunto per enunciare diverse folgoranti teorie sul funzionamento del tempo. In due boschi londinesi, a distanza di alcuni decenni, due delitti vengono compiuti per trasformarsi in opere d’arte e dare il via a una sequela di riflessioni intorno all’arte contemporanea e alla sua presa sul mondo dei fenomeni.
R. Austin Freeman, giallista
Probabilmente Michelangelo Antonioni e il suo Blow-up (1966) non hanno bisogno di particolari presentazioni, mentre qualche cenno storico va fatto su Richard Austin Freeman (1862-1943) e il suo ultimo romanzo, Il mistero di Jacob Street (The Jacob Street Mystery o – come recita il rivelatore titolo alternativo – The Unconscius Witness, 1942). Freeman è tra i più importanti giallisti inglesi del post-Conan Doyle. Col nome di Clifford Ashdown produsse raccolte di racconti dedicati a Romney Pringle, investigatore in incognito dietro la fittizia identità di agente letterario. Ma la gloria imperitura gli arrise col vero nome quando ideò la sua grande creazione: il dottor John Thorndike, precursore e modello per qualsiasi detective che faccia sue le armi della scienza per dipanare le matasse del crimine. Fin dal suo esordio, L’impronta scarlatta (The Red Thumb, 1907), Thorndike si piazza nella casa di King’s Bench Walk (attribuita a Christopher Wren) col suo Watson personale Cristopher Jervis e il fido assistente di laboratorio Nathaniel Polton, per diventare l’eroe del razionalismo positivista applicato alla detection. Esprit positivista tipico della poetica di Freeman che – spinto all’eccesso – produrrà il delirio lombrosiano di Una vendetta scientifica (A Savant’s Vendetta), romanzo “fuori serie” su una giustizia privata di impressionante virulenza. Non è tutto. La concezione rigidamente geometrica del plot – che accomuna Freeman a S.S. Van Dine e al suo impareggiabile Philo Vance – lo spinge a una inedita sperimentazione strutturale, invertendo i termini del poliziesco classico. Ed ecco la seminale short story Premeditazione (A Case of Premeditation), dove nelle prime venti pagine (L’eliminazione del signor Pratt) si assiste all’esecuzione del delitto, laddove le restanti venti (Segugi a confronto) sono occupate dalla sua ri-costruzione tramite indagine. Praticamente lo schema che ha fatto la fortuna del Colombo televisivo.
Tom Pedley, pittore di paesaggio; Thomas, fotografo di moda
Detto questo, qual è il grado di parentela tra il pittore paesaggista Tom Pedley, che in un piacevole e assolato pomeriggio verso la fine di maggio del 1930 piazza il suo cavalletto tra i cespugli di Gravel-pit Wood, un’oasi boschiva resistente tra le costruzioni della periferia londinese che la circondano dappresso; e Thomas, fotografo di (e alla) moda che in un giorno primaverile verso la metà degli anni ‘60 si prende una vacanza dal frenetico vortice della swingin’ London per andare a puntare il suo obiettivo dentro un parco suburbano silente e presago? Più di quel che si potrebbe pensare misurando la distanza storica tra i nostri due eroi dello sguardo.
C’è che mentre Pedley è impegnato a dipingere il suo nostalgico stralcio di natura fuori dal tempo, baluardo contro l’assedio del progresso in forma di speculazione edilizia, è distratto dall’ingresso nel suo campo visivo di due uomini e una donna che iniziano uno strano andirivieni, un enigmatico carosello relazionale. Appena a casa, Tom butta giù uno schizzo di quanto ha intercettato nel suo appostamento, intitolandolo sagacemente “Qualcuno origlia”.
Con le stesse dinamiche, più o meno, si svolge una scena simile davanti all’occhio mobilissimo e all’obiettivo prensile di Thomas. I movimenti e i gesti furtivi di una coppia clandestina gli prendono lo spazio di un rullino tra un servizio di moda e l’altro.
Lotte Schiller, artista modernista
Fin qui le scene madri scopiche. Ma il bello deve ancora venire, ché in entrambi i casi gli sviluppi della vicenda tireranno in ballo nuovamente il discorso sull’arte e sul suo rapporto con la realtà. Seguiamo Freeman. Già dimenticato lo schizzo frutto casuale dell’appostamento pomeridiano, entra in scena una bizzarra vicina di casa di Pedley, guardacaso artista dilettante. E allora si va facendo chiaro che lo scrittore inglese (per sue ragioni di intreccio giallo, ma con un gusto speculativo a sé stante) sta buttando giù un curioso trattatello sulla questione. La petulante signorina Lotte Schiller, seguace delle “nuove” tendenze astratte, per fare un complimento al nostro orgoglioso paesaggista – sostenitore incorruttibile dell’arte “classica”, ancorata alle ragioni del vero – dice di una sua opera: “Sembra quasi una fotografia”. Provocando l’immediato risentimento del pittore, che risponde piccato: “La mia è un’interpretazione il più possibile fedele della natura ma risulta, ovviamente, molto lacunosa” – intendendo che in quelle lacune, in quegli interstizi negati alla fedeltà fotografica, risiede il campo d’intervento dell’artista. Al che lei ribatte: “La pittura figurativa deve essere molto difficile e, in fin dei conti, voi non potete competere con un fotografo. Questo è il vantaggio dell’arte astratta. Non si tenta di imitare niente in modo particolare ma semplicemente di esprimere la propria personalità in termini di forma astratta e colore.” (p.19) Astrazione quindi come rifugio del dilettante che voglia esprimersi liberamente in barba alle complicazioni tecniche della verosimiglianza, del resto ormai inutili quando a fare (e meglio) il mestiere del ritrattista o del paesaggista ci sta il fotografo e il suo mezzo, oggettivi e scientificamente esatti (“obiettivi”, puntualizzava Bazin).
D’altra parte – giusto una pagina più avanti – i giudizi dell’inveterato tradizionalista Tom sulle opere dell’invadente vicina sono tranchant. Di fronte alla sua Sinfonia in verde e blu, imbarazzato, chiosa nominalisticamente: “A me non piace molto chiamare le cose con il nome sbagliato. Sapete, non è una sinfonia. Una sinfonia è una combinazione di suoni, mentre questo lavoro è…è (non ce la fa a dirlo) ebbene è un quadro”. Con buona pace di Whistler e di decenni di contagi sinestetici tra musica e pittura, via Skrjabin e Kandinsky. Non migliore fortuna hanno le opere più figurative di Lotte, basate sull’essenzializzazione delle forme, corteggianti il gusto neo-primitivo. Per concludere la questione, una bella dichiarazione di chiusura mentale: “Non so niente di quest’arte modernista tranne che è completamente diversa dall’arte che ho sempre conosciuto e praticato. Non possiamo discuterne in quanto non parliamo la stessa lingua.” Linguaggio e mondi diversi, inconciliabili, nessun dialogo possibile: la querelle degli antichi e dei moderni finisce in un muro contro muro. Ed ecco l’affondo estetico dell’ormai scatenato Pedley: “Quando dipingo un quadro aspiro alla bellezza e visto che non c’è niente di più bello della natura, cerco quanto più possibile di riprodurla fedelmente. E siccome un quadro è un’opera creativa e non una mera rappresentazione, come l’illustrazione di un testo scientifico, cerco di comporre i miei soggetti in modo tale che comunichino sensazioni gradevoli e interessanti. Però, a quanto pare, l’arte modernista rifugge dalla fedeltà alla natura e da ogni sorta di interesse intellettuale o emotivo.” (bum)
E ancora: “Sono convinto che le forme astratte siano pertinenti alle scienze esatte, mentre la pittura e la scultura si occupano di cose visibili e tangibili.” La bellezza è verità, la verità bellezza, per Keats come per Pedley, e la verità di natura è la verità per eccellenza, questo il concetto. Anche se già nell’arte classica – nella scultura greca per esempio – la mimesi non andava a esaurirsi nella “semplice” riproduzione del reale, ma implicava un processo di essenzializzazione, perfezionamento, assalto all’idea platonica. Astrazione, dunque. Ma tant’è. Nel suo eden incorrotto dalle controversie della modernità (come Gravel-pit Wood, assediato dai palazzi ma fieramente resistente), Tom è rimasto forse a Constable, all’epoca bella della pittura pre-dagherrotipo. Una visita all’ala Turner della Tate Gallery probabilmente già lo sconcerta, con le sue dissoluzioni cosmiche della forma nella luce. Andare più in là potrebbe essere pericoloso, essendoci la possibilità di scontrarsi frontalmente con le nebbie pulviscolari di Monet o coi parallelepipedi di Cezanne. Picasso non lo nominiamo neppure. Per non dire della frase di Giacometti da noi posta in esergo, che con la sua spavalda paradossalità avrebbe mandato in definitivo cortocircuito i neuroni del buon Pedley. In questa posizione indubbiamente manicheista – condivisa senza esitazione dagli altri personaggi con cui il pittore si confronta, e quindi offerta come sentire comune – si stagliano con limpidezza i ragionamenti dell’uomo “medio” del Novecento di fronte alle proposte dell’avanguardia, coi suoi luoghi comuni inveterati, e le comode scorciatoie di pensiero: arte astratta come fuga dal “vero”, e quindi dall’emozione, che solo l’immediata riconoscibilità naturale e antropomorfica del soggetto garantirebbe; separazione netta tra campo delle scienze esatte (che sottintende la loro aridità puramente intellettuale) e della creazione artistica (che sola può toccare le corde del cuore umano); ergo, recisa incomprensione, rifiuto, nostalgia per un passato dove l’arte era per tutti, e senza infingimenti si offriva alla comprensione immediata dell’intellettuale come dell’incolto.
Un’epoca in cui tutti potevano capire, ma a pochi erano riservati i mezzi, le conoscenze tecniche per “fare”, mentre oggi, signora mia... Illuminante a tal proposito la rievocazione dell’accostamento alla pittura da parte di Lotte: un’amica la invita a una mostra di “maestri moderni” e lei, mai interessatasi di arte in vita sua, rimane folgorata. “I quadri erano così diversi da tutto ciò che avevo visto in precedenza, così originali e bizzarri. Sembravano fatti da bambini.” (p.22) E quando ci si applica, meraviglia, anche lei riesce a replicare quelle forme elementari (laddove Picasso aveva dovuto superare Raffaello per tornare all’infanzia del tratto). Pedley, mentre le insegna a usare i colori ad olio, non perde l’occasione di infierire: “anche una dilettante (stava per dire “anche uno scemo”) può stendere strisce di colore su una tela e mescolarle.” Salvo aggiungere: “Ma, naturalmente, bisogna indovinare le strisce.” (p.25) Avesse letto Kandinsky poteva parlare della “necessità interiore” della forma, ma tant’è: tutto sta nel tirare a indovinare, magari azzeccando la combinazione gradevole, quel certo non so che a dirimere tra il pastrocchio casuale (quello che “anche un bambino dell’asilo...”) e l’opera consapevole. Del resto la discriminante della tecnica ha segnato anche la contrapposizione di un grande “passatista” come De Chirico alle dominanti forme astratte della sua epoca.
La narrazione prosegue sfoderando una disquisizione sul ritratto in pittura e fotografia, su come quest’ultima possa cogliere la forma in un momento dato, ma non “il carattere saliente e permanente” di una personalità, come fa l’artista (pp.30-31); e poi ancora l’obbligatoria tirata retorica di Pedley sull’impostura dell’arte moderna, alimentata da critici compiacenti e amatori pseudo-intellettuali, per concludere: “I primi modernisti erano, a mio avviso, veramente bizzarri. Alcuni di loro erano dichiaratamente folli. Però al giorno d’oggi è impossibile giudicare. Perché il problema, Polton, è che nel momento in cui accettiamo prodotti rozzi e infantili come opere d’arte lasciamo campo libero agli imbroglioni.” (Pp. 35-36). Ecco il fulcro della mentalità borghese: originalità, rifiuto delle regole date intesa come follia tout court, bizzarria incomprensibile d’artista, eppure ancora accettabile, di fronte alla furbizia smaccata e in malafede degli epigoni.
Dopo questo intro spiccatamente teorico, attacca la sezione poliziesca vera e propria, ma non è che a pagina 76 – con l’inizio della seconda parte – che Jervis si prende il carico della narrazione, entra infine in scena Thorndike a dipanare le intricate vicende fin lì delineatesi, e si entra nell’agone delle disquisizioni tecnico-legali-scientifiche padroneggiate insuperabilmente dal nostro eroe del microscopio. Eppure si viene a scoprire che nel travestimento al centro del piano criminoso, che non sveliamo, la “finta” arte moderna ha un ruolo cruciale. Da cui si deduce un ovvio sillogismo: l’arte modernista (o almeno la moda che ha innescato), come truffa, né più né meno.
L’assassinio come opera d’arte
Non solo. Nel solito, mirabile ragionamento esposto da Thorndyke nell’ultimo capitolo, il quadro sbozzato da Pedley – il “testimone inconscio” – in quel pomeriggio di maggio avrà un ruolo fondamentale per la risoluzione del mistero, anzi dei due misteri legati dal fil rouge artistico che abbiamo dipanato fin ora. Il che ci distoglie per un attimo dai ragionamenti teorici per ricondurci al nucleo enigmatico della visione, che ci ha condotto all’associazione mentale Freeman-Antonioni. Come si sa, quando Thomas va a sviluppare le foto scattate nel parco periferico nota qualcosa di strano, e innesca il processo di blow up (ingrandimento, letteralmente; ma anche rivelazione – di ciò che all’occhio nudo è invisibile; ed esplosione – delle latenze celate nella realtà fenomenica, della sua ambiguità semantica), andando a scoprire gli indizi visivi di un delitto: una pistola che spunta tra le fronde, la macchia di un corpo a terra.
Lo spunto è sorprendentemente simile, non c’è dubbio alcuno. L’abissale differenza si palesa nei rispettivi sviluppi delle vicende. In Freeman (ovverosia nel giallo classico di stampo inglese, incentrato strutturalmente sul whodunnit) il quadro è uno degli elementi che conducono tramite logica indiziaria a una soluzione – ferrea, logica, inattaccabile – ribadente il trionfo della razionalità sullo squarcio (metafisico, diremmo) di tenebra che il delitto ha aperto nel tessuto della società, sconcertando i buoni e onesti cittadini non a disposizione delle chiavi euristiche atte a penetrarne il labirinto, almeno fino all’intervento del dio del ragionamento (si chiami Thorndyke, Holmes, Poirot) che rimette le cose a posto. In Antonioni, all’inverso, secondo il suo proverbiale procedimento del “mistero aperto” (di cui la scomparsa di Anna in L’avventura è esempio paradigmatico), le stesse premesse metodologiche conducono al nulla, alla dissoluzione dell’intreccio, allo svanire beffardo di ogni possibile soluzione (o alla sua beffarda trasformazione in libertà d’interpretazione, che ha l’effetto di moltiplicarla all’infinito). Il tarlo metafisico qui non si fa stroncare dall’insetticida della ragione, ma rode le radici della narrazione fino a farla crollare su sé stessa. Thomas trova il cadavere (la macchia si transustanzia in carne), ma si perde nei propri dubbi, nella propria irrequietezza congenita, nelle lusinghe della notte londinese, e il tangibile corpo del reato (inquieto come l’Harry hitchcockiano) si dilegua, lasciandolo solo sul cuor della terra, una invisibile palla da tennis in mano, per poi dileguarsi anche lui con un fade che lo manda a sparire nel verde del prato.
Lo stesso avviene per il discorso collegato al pretesto giallo, che anche qui riguarda l’arte e la sua concezione. Se Freeman sembra non nutrire dubbi sul valore di testimonianza dell’arte “classica”, con Antonioni il moderno irrompe a complicare irrimediabilmente le cose. Non più quadri fedeli “come fotografie” al reale, e che pure del reale colgono quel “di più” garantito dall’occhio superiore dell’artista; no, qui si tratta di fotografie (proprio quell’arte dell’oggettività di cui parlavano Lotte e Bazin) che tendono pericolosamente all’astrazione, all’illeggibilità, alla disintegrazione del sembiante, e lungi dal rivelare il reale lo opacizzano al quadrato.
Per speculum, in aenigmate
Ci torna sulle dita questa parola bella e pericolosa, rivelazione, e il carico di senso spirituale che la riflessione baziniana ci ha posato sopra. Ora, le foto di Thomas sembrano appunto assumere il ruolo di rivelatori di una realtà occulta che all’occhio nudo è celata. Ma il loro percorso semantico condurrà inevitabilmente alla deriva del significato, a quella “sincope” del senso individuata da Barthes in Antonioni. A una rivelazione dunque dell’infinita ambiguità del visibile, dove i segnali della trascendenza e il peso dell’immanenza si vanno a confondere.
Allo stesso tempo, il percorso formale delle foto conduce dal realismo all’astrazione, e allora viene in mente un altro teorico della rivelazione, evocata ripetutamente da Vassily Kandinsky ne Lo spirituale nell’arte. Per l’artista russo l’opzione astratta vale come riflesso dell’interiorità, e via per la creazione di un’arte spirituale. Di qui la sua insistenza su formule come “suono interiore”, “necessità interiore” della forma, volte a scongiurare qualsiasi pericolo di estetismo fine a se stesso. Da parte sua Antonioni si è espresso così: “Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere.” Di tentativi di cinema astratto la storia è piena, dall’avanguardia storica di Richter e Eggeling all’underground di Brakhage & Co., proprio negli anni di Blow-up, e anzi forse proprio il coté apparentemente “naturalista” del meccanismo di riproduzione cinematografico ha spinto gli artisti d’avanguardia a dissolvere l’elemento organico nella pura forma, o a trascurarlo in favore della geometria.
La domanda che tali esperimenti pongono non è banale: possono le arti basate sulla realtà sensibile fare un salto nel buio (o nella luce) della non figuratività? E se sì, come? Il blow-up, l’ingrandimento che va a disintegrare il dato visibile di partenza è una delle possibilità, e sarà praticato da Antonioni anche nella pittura con la serie delle Montagne incantate, e poi ripreso tra gli altri da Brian De Palma (vedi lo zoom all’indietro dai pixel sullo schermo del circuito chiuso all’inizio di Raising Cain). Ma il mezzo preferito dal regista emiliano rimane l’organizzazione del profilmico dentro l’inquadratura, dove il dato concreto non viene scavalcato, ma è il punto di vista a trasformare il noto in incognito. Ecco le insorgenze astratte rilevate da Bonitzer (il gusto per la “macchia”, il tachisme) e Burch (le inquadrature UFO, l’ambiguità di forma e scala) nell’opera antonioniana. Sulla consapevolezza di Antonioni in queste fughe formali non possono esservi dubbi: basti aprire la sceneggiatura di Tecnicamente dolce, progetto non realizzato, a pagina 87, dove le pareti devastate e bruciacchiate di una casa sono paragonate a un Burri.
In Blow-up il tema è affrontato esplicitamente quando Patricia accosta gli ingrandimenti di Thomas ai quadri astratti di Bill, che d’altronde dice che trovare dei significati per i propri quadri è come indagare sull’enigma di un libro giallo. L’astrazione è quindi l’interrogazione su un mistero, il mistero stesso dell’esistente, e del nulla che gli è sotteso. Interrogazione sempre aperta e senza soluzione all’ultimo capitolo: Dio resta celato, lasciando l’uomo nelle tenebre. Non è un caso allora se si possono individuare dei tratti che ricordano una gamba nel quadro di Bill: in quella che forse è la prima enunciazione dell’arte astratta, Le chef-d’oeuvre inconnu di Balzac, nell’inaudito quadro di Frenhofer spunta dalla nebulosa di colori solo un piede di donna. Affrontando il racconto nella sua lezione americana sulla visibilità, Calvino parla di indecidibilità nel rapporto tra il mondo di cui facciamo esperienza, quello catturato dall’arte come oggetto finito e quello di infinite possibilità che vive dentro l’artista.
Se Freeman arrivava in ritardo all’appuntamento col dibattito su realtà e astrazione, Antonioni riprende il discorso su arte realistica e astratta applicandolo alle arti della riproducibilità tecnica e del mito baziniano del “realismo integrale”, e a un altro snodo storico: la contrapposizione dell’ormai dominante opzione astratta con una nuova scuola che torna alla figuratività, descrivendo una realtà vista attraverso le lenti deformanti delle comunicazioni di massa, della pubblicità, della costruzione del consenso. L’iperrealismo, insomma, di cui la pop art è l’espressione più a la page. Blow-up è immerso nella cultura pop degli anni Sessanta e se ne fa anzi esso stesso espressione tra le più alte e memorabili (insieme alle sperimentazioni baviane degli stessi anni, 5 bambole per la luna d’agosto in testa), dai colori caramellati alla messa in scena di un mondo dove vige il culto illusorio del feticcio, sia il manico della chitarra di Jeff Beck lanciato al pubblico in delirio (e abbandonato subito fuori dal locale-tempio) o l’elica acquistata dall’antiquario, bella e inutile.
Se l’’perrealismo è un’analisi della superficie delle cose e l’astrattismo un viaggio nel profondo della percezione, il loro discorso si sostiene e annulla reciprocamente. L’uno – aggiornando l’insegnamento di Duchamp – svela l’illusione degli oggetti, della merce, svincolati dalla loro funzione e “ridotti” (o forse esaltati?) a pure icone estetiche senza valore concreto; l’altro parte da pretese mistiche di rivelazione per arrivare al collasso psichico (quello del pittore balzachiano) o all’impotenza ermeneutica (quella del fotografo antonioniano). Tocca allora a un altro tipo di arte – plastica, corporea – sostituire le ingannatorie profondità della pittura, della foto, del cinema. Come ha notato Marsha Kinder, nel gioco dei mimi della scena finale “l’ambiguità tra illusione e realtà è accuratamente controllata, ed è basata su un intenzionale atto di immaginazione”. Thomas sospende l’incredulità e rilancia la palla. Se sia una perdita o una vittoria in fondo non ha molta importanza. Maya, comunque, regna sovrana.
Addenda: altri occhi che uccidono
Considerando l’opera estrema di Freeman, vengono alla mente altri gialli incentrati sulla visione, e in particolare su situazioni che richiamano quella dello spettatore cinematografico: ovviamente il delitto scorto casualmente “in the blink of an eye” dal finestrino di un treno all’altro in Istantanea di un delitto di Agatha Christie, straordinaria intuizione “fotogrammatica” hitchcockiana; ma ancor più pregnante quello a cui è costretto impotente ad assistere impotente il detective voyeur chiuso in un padiglione sulla spiaggia ne L’inseguimento del signor Blu di Gilbert K. Chesterton, con l’oblò rotondo a fare da schermo di proiezione della realtà esterna, e inoltre da meccanismo di illusione ottica, con il carosello della vittima e del carnefice che all’occhio di Muggleton si scambiano di posto, e potrebbe essere la gag pre-slapstick del poliziotto e del cinese per il Nickelodeon di Edison. Mentre la spiaggia trafficata di pierrot e predicatori in cui il detective è costretto da padre Brown di fronte alla fallacia dei propri sensi potrebbe affiancarsi al parco mattutino del finale di Blow-up, coi suoi mimi stile Wimbledon. Come poi in Antonioni, tutto è sotto gli occhi dell’uomo, pur allenato a guardare, e che pure fino alla fine rimarrà cieco rispetto all’inganno perpetrato ai suoi danni.
D’altra parte la lezione del rullino di Thomas sarà cruciale per tutti quei registi che cercano di saldare un filo tra lo sguardo, l’interpretazione della realtà, la sua natura ontologicamente indecifrabile. Il mondo diventa una sorta di cruciverba ottico dove l’inganno è sempre in agguato a beffare i sensi o le loro protesi manuali o meccaniche. Ed ecco le brucianti, ossessive visioni ambigue dei testimoni argentiani (Tony Musante in L’uccello dalle piume di cristallo, il recidivo David Hemmings in Profondo rosso), le morbose geometrie vedutistiche del pittore di Peter Greenaway (The Draughtman’s Contract), i rivelatori filmini amatoriali di José Luis Guerín (Tren de sombras). O, esempio supremo, gli appostamenti incrociati di Michael Mann in Heat: le guardie fotografano i ladri, ma quando vanno a investigare su cosa questi stavano osservando, scoprono che sono loro, l’oggetto misterioso che ha scavalcato il campo visivo: cacciatore e preda (evanescenti) precipitano nell’abisso del punto di vista.