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Tre colori - L’epopea di Kieślowski

Pubblicato il 1 luglio 2020 da Francesca Pistocchi


Tre colori - L'epopea di Kieślowski

Corre l’anno 1993. Da qualche parte nella campagna francese, un’auto impatta contro un albero. Un ragazzo assiste alla scena. L’istante successivo, una giovane donna si risveglia all’ospedale, scoprendo di aver perso marito e figlia. Inizia così l’ultima, grandiosa parabola di Kieślowski: Tre colori è un’odissea contemporanea, un lungo monologo in tre atti recitato a gran voce da un coro polifonico.

Le tre vicende si svolgono all’interno di un universo i cui punti cardinali sembrano essere segnati dall’ineluttabilità del caso: un’irrequieta successione di coincidenze fortuite traccia i destini di Julie (Juliette Binoche), Karol (Zbigniew Zamachowski) e Valentine (Irène Jacob).
Brutalmente espulsi da un passato insoddisfacente ma rassicurante, i protagonisti si ritroveranno di punto in bianco a dover plasmare nuovi percorsi, senza sapere da dove iniziare. Julie non riesce a liberarsi dal fantasma del marito musicista – un fantasma in carne ed ossa, concretizzatosi nel fastidioso e prepotente rintronare del suo Concerto pour l’unification de l’Europe.
Nel tentativo di riconquistare la moglie crudele, Karol dovrà dimostrarsi più spietato di lei. E Valentine sarà costretta a ripercorrere le vite altrui per ritrovare la propria. Come Alice dietro lo specchio, la trilogia si muove all’interno di una dimensione in cui per esistere è necessario morire, per ritrovarsi bisogna perdersi e per spostarsi ci si ferma improvvisamente. Blu, bianco, rosso: blu come la claustrofobica libertà di Julie, bianco come la gelida dissonanza che lega Karol alla moglie Dominique. Rosso come il filo sottile a cui i personaggi sono appesi ma che Valentine, con l’aiuto del giudice-parca Joseph (Jean-Louis Trintignant), riesce ad afferrare. Nell’ultimo capitolo del suo lungo viaggio, Kieślowski mette in scena la giusta rivincita di Véronique e di Witek, trasformando la marionetta in burattinaio.

Il disordine fatale che domina l’intera opera del regista polacco sembra anticipare quel lento e inesorabile processo di annientamento con cui ci si prepara ad accogliere il terzo millennio: nelle sale domina la teoria del caos, la cinepresa taglia e ricuce la vita a proprio piacimento. A uscirne indenne è chi prende le redini di questa folle auriga: come Samuel L. Jackson in Pulp Fiction, eroe del tragicomico dramma tarantiniano e, grazie all’ispirazione grottesca con cui egli trasforma la circostanza accidentale in evento prestabilito, unico superstite di una serie di sfortunati eventi. O come la Lola di Tykwer, disposta a scardinare l’ordine dell’entropia cercando di dare un senso all’imprevisto. O come Helen, reincarnazione apolitica del più noto Witek, immortalata mentre apre e richiude le Sliding doors del fato fino al proprio (im)meritatissimo happy end.
Non dimentichiamoci, inoltre, del drugo Lebowski, sorta di nuovo Ulisse e paladino dell’indolenza assoluta – ai nostri giorni la sola forma di attivismo davvero possibile. Il cerchio si chiude nel 2004 con Donnie Darko, archetipo di chi si muove attraverso i frammenti spaziotemporali con grave disinvoltura. Insomma, la logica dei tre colori invade e definisce il cinema odierno e – perché no – anche quello dell’immediato futuro: i tre anti-comandamenti di Kieślowski si fanno pilastri fondamentali di una realtà tutta da riscrivere e nella quale ogni principio corrisponde al suo opposto. Libertà incondizionata come soffocante immobilismo, uguaglianza come squilibrio, fratellanza come ossessiva ricerca di un’onniscienza ormai quotidianamente raggiungibile. A vincere la stasi, a scrivere la storia sono i Mr. Bloom del ventunesimo secolo che, a differenza del loro celebre predecessore, trasformano la casualità in fortuna. È ciò che fa Valentine nel rosso torpore della sua esistenza, affidandosi alle profezie del regista stesso, qui nei panni del vecchio giudice in pensione.

Nell’epopea con cui Kieślowski prende finalmente congedo dal proprio universo cinematografico, l’esperienza del presente viene ripresa da ogni angolatura possibile. Ogni avvenimento ne determina un altro, in una catena di ipotesi che si propaga all’infinito come la caduta delle tessere del domino. Cercando l’amante del marito defunto, Julie fa capolino al processo di Karol. Auguste e Valentine s’incrociano continuamente senza mai riconoscersi.
Un’anziana signora (reduce dalla doppia avventura di Weronika) mette alla prova i protagonisti tentando inutilmente di gettare una bottiglia vuota nel bidone del vetro: dalla reazione di ognuno si legge la parabola che egli, quasi fosse una croce, reca sul volto. Julie socchiude gli occhi, Karol sorride malevolo, soltanto Valentine parteciperà attivamente alla scena: l’immaginario del regista polacco segue un fil rouge che in pochi fra i suoi attori sono in grado di percepire. La chiave per accedere al destino e per ricostruire una nuova storia al di là della storia verrà consegnata da Joseph-Krzysztof all’ultima delle sue eroine: sarà infatti proprio Valentine, nella sua strana fuga verso la manica, a salvare tutti – e a richiudere il sipario.


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