Il lungo addio
Il lungo addio è una storia di amicizia, un sogno ad occhi aperti, una truffa, un prisma, uno spaventapasseri per cinefili.
Mai Altman ha imbandito una tavola per gli spettatori senza includere pietanze avvelenate oppure di cera, dure a digerire. Il lungo addio prende la materia vibrante del noir di Raymond Chandler e la fa esplodere di senso (un looser non rimane tale per sempre), di contenuto (la società contiene gangster, poliziotti corrotti, medici assetati di denaro ma anche belle inquiline che fanno yoga nude e campano di candele fatte da loro che vendono in un baracchino sul boulevard), di forma (la musica, il miraggio, la scelta delle inquadrature e dei lentissimi movimenti di macchina lusingano e confondono, distraggono e mettono all’erta, vanno alla ricerca di un centro quando la gravità non è più permanente da nessuna parte: in mare, in Messico, nella banconota da due dollari che Marlowe ha scambiato col suo vecchio amico, sospettato assassino della moglie, Terry Lennox).
Il lungo addio è una partitura senza direttore d’orchestra: il povero detective Philip nella prima sequenza viene svegliato, tutto vestito, alle tre di notte dalla gatta rossa che ha fame. Il tentativo di darle un intruglio da lui preparato fallisce e successivamente - dopo la puntatina al supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro con incluso dialogo magnifico con l’addetto: «Avete cibo per gatti Curry?», «No, è finito, ma dagliene un altro, sono tutti la stessa merda», «Tu non hai un gatto?», «No, ho la fidanzata» (sul senso del discorso Marlowe recandosi alla cassa bofonchia) - con il cibo sbagliato messo nella scatola giusta con annessa finta apertura con apriscatole e il gatto che capisce la truffa e, schifato, se ne va via attraverso una porticina che si chiama La puerta del gato. Nei primi cinque sei minuti di film ad ogni cambio di ambiente ci sono diverse versioni del favoloso tema musicale che suona “It’s a long goodbye, but it happens every day” in vari stili diversi: a casa in versione jazz, mentre Lennox guida dalla radio arriva una versione un po’ messicaneggiante (a suggerire la meta finale dell’uomo), al supermercato la musica diviene pop, di fronte l’appartamento di Marlowe con le ragazze nude che fanno yoga è una colonna sonora orientaleggiante ma sempre dello stesso tema che varia ogni volta pur restando riconoscibile all’orecchio dello spettatore.
Altman tratta la materia narrativa chandleriana con l’irrispetto del grande autore: due grandi autori messi a confronto attraverso l’espressione della propria arte individuale, uno con la scrittura, l’altro con la regia. La grandiosità di progettare una trasposizione di un capolavoro di genere noir (peraltro da Raymond Chandler, autore già più volte saccheggiato dal cinema negli anni d’oro del cinema noir), ritrovare un genere cinematografico all’epoca ormai pressoché estinto (1973), ribaltarne l’assunto fondamentale sono cose che forse solo un pazzo come Robert Altman poteva azzardarsi a fare (con successo).
Riflessi, sovrapposizioni di persone che parlano di cose diverse, musica extra-diegetica e diegetica del tema musicale alternate in maniera superlativa, personaggi pennellati alla perfezione (la moglie traditrice fintamente preoccupata del marito alcolizzato, lo scrittore in crisi con tendenze suicide molto somigliante a un Hemingway hollywoodiano, tutti i personaggi caratteristici collaterali mai descritti come macchiette piuttosto come pezzi validi nel gioco a incastro di un thriller che ha poco del thriller e molto di una catalogazione umana di virtù e bontà, di crimine e perdizione) fanno de Il lungo addio una perla nella copiosa e sfaccettata produzione atlmaniana.
Due le scene cult (tra le molte altre perfette, evocative, scintillanti nei dialoghi e nella recitazione): l’agghiacciante scena della bottiglia frantumata con violenza in faccia alla fidanzata del gangster dall’uomo stesso in una prova di violenza ai limiti della decenza; l’inatteso finale con un Marlowe stravolto della sua natura perdente letteraria, vendicativo delle azioni precedenti in difesa dell’amico che poi tanto amico non era. Un autentico capolavoro.
(The long goodbye); Regia: Robert Altman; sceneggiatura: Leigh Brackett (da Raymond Chandler); fotografia: Vilmos Zsigmond; montaggio: Lou Lombardo; musica: John Williams; interpreti: Elliott Gould, Nina Van Pallandt, Sterling Hayden, Mark Rydell, Henry Gibson, Jim Bouton; produzione: Lion’s Gate; origine: USA, 1973; durata: 112’