X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Prima Pagina

Pubblicato il 28 luglio 2020 da Francesca Pistocchi


Prima Pagina

“Cop-Killer sane, must die!”: la Prima pagina di Billy Wilder si apre con l’entusiasmo grottesco di dieci punti esclamativi. Maestro della commedia e dell’accelerazione maniacale, perfezionista ai limiti della nevrosi, Wilder è il figliol prodigo del secolo scorso. L’intera pellicola ruota vorticosamente attorno ad una ventina di caratteri, strani simboli che sulle vite dei protagonisti pesano come piombo: un uomo uccide un poliziotto, dunque deve morire. Così ha deciso Sua Maestà il Cliché tipografico, la seduta è tolta, la parola sia data ora ai suoi sudditi. Omicidio politico? Bolscevismo? Attentato? Poco importa. Nel caotico rigore di una Chicago anni ’20 tutta berlinese, ognuno deve fare la propria parte: così si accatastano l’una sull’altra le opinioni, fabbricando la verità del giorno, altresì detta “versione ufficiale dei fatti”. E quest’ultima descrive le peripezie di Hildy Johnson (Jack Lemmon, ovviamente), rasender Reporter deciso ad appendere al chiodo la macchina fotografica per seguire l’amore. Un tenero tentativo di emancipazione destinato a fallire – lo intuisce lo spettatore, lo sentenzia Mr. Burns (Walter Matthau, ovviamente), implacabile e paterno direttore del famigerato Chicago Examiner. Nella folle notte fra il 6 e il 7 giugno 1929, dietro le quinte della quotidianità, il mondo va letteralmente a rotoli – non tanto per la logica dell’assurdo a cui ogni buon cinefilo ha ormai fatto il callo, quanto per la sottile e ironica genialità con cui il regista si insinua nella gag o nella battuta d’ordinanza, indicandoci qualcosa che potrebbe ma non deve sfuggirci (deformazione professionale?). Così scopriamo che il temibile Cop-Killer Earl Williams (Austin Pendleton) è un innocuo quattrocchi idealista, vittima del sistema e carnefice di sé stesso. La prospettiva di dondolare attaccato ad un cappio per conservare l’ordine prestabilito non sembra risvegliare in lui alcun tipo di reazione: l’unica colpa di cui questo (non proprio) atipico criminale si macchia è quella dell’inerzia. E infatti, egli non è nemmeno capace di uscire dal labirinto kafkiano in cui si ritrova improvvisamente a vagare senza una meta precisa. Earl è una sorta di Woody Allen ante litteram, il quale si troverebbe forse meglio nel disteso jazz di una Manhattan anni ’80 che non nel ritmo fin troppo sincopato dei roaring twenties. E mentre la polizia è impegnata a crivellare l’edificio della Friends of American Liberty nel nome della legge e della disciplina (una scena incredibilmente attuale!), questa pecora nera tanto somigliante ad una pecorella smarrita si limita a sanguinare dentro lo scrittoio-bara di un impiegato del Tribune. Insomma, ripetiamo insieme: ognuno deve fare la sua parte. E ciò vale anche per la cara e dolce Peggy (Susan Sarandon), fidanzata modello di Hildy, chanteuse in un cinematografo nel quale la canzonetta si alterna alla propaganda e, last but not least, causa principale delle dimissioni del nostro scomodo reporter.

Solo un tedesco (ex giornalista, fra l’altro!) avrebbe potuto dipingere il confuso borbottio della stampa con sarcasmo tanto vivace: così ritornano le luci abbacinanti della metropoli, la percezione distorta degli spazi e dei tempi, la strada di Joe May che corre senza mai fermarsi. Ritorna la tragica ingenuità della donna di malaffare, qui una Molly Malloy (Carol Burnett) che strizza l’occhio alla più nota Jenny dei Pirati brechtiana. Ritornano le fantasie di Fritz Lang, i vocaboli senza senso gettati nero su bianco e vomitati da migliaia di bocche sedute alla scrivania, circondate da volute di fumo, prigioniere di stanze in cui si condanna e si riscatta quasi per gioco. Ognuno parla al proprio alter ego – qui in forma di ricevitore telefonico – gettando ovunque telegrammi di guerra, muovendosi con cinica e schizofrenica rapidità: “cosa sarebbe l’essere umano senza il telefono? Un povero diavolo. E cos’è l’uomo con il telefono? Un povero diavolo” scrisse anni or sono un Hildy Johnson alquanto disilluso nella lontana Berlino post-inflazione. Prevedibile ma necessaria, inoltre, l’entrata in scena dello psicanalista austriaco e dei suoi incubi preconfezionati: visioni che, come affermava un Mr. Burns viennese reggendo alta la sua fiaccola, non si distanziano poi tanto dal fatale brusio tipografico della cosiddetta normalità. E l’America? Ma è proprio nel creativo scompiglio della redazione, nel paranoico e velocissimo susseguirsi delle istantanee con cui Wilder documenta l’irrealtà dei fatti che si riaffaccia il Cameraman Buster Keaton, intento a girare compulsivamente la manovella del bizzarro apparecchio con cui si registra il ritmo forsennato dell’oggi. Nessuno sfugge alla cinepresa, nemmeno noi, nemmeno adesso, nemmeno a un secolo di distanza: in fondo, la vita è un’eterna Prima pagina.


Enregistrer au format PDF