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Duetto Marchioni-Solarino

Pubblicato il 4 novembre 2011 da Giovanna Branca


Duetto Marchioni-Solarino

Come da tradizione, Il Festival internazionale del film di Roma organizza una serie di duetti tra varie personalità del cinema. Nell’edizione di quest’anno, anche quello tra due giovanissimi attori italiani, tuttavia già molto famosi: Vinicio Marchioni (universalmente noto come il Feddo nella serie TV di Romanzo Criminale) e Valeria Solarino (Vallanzasca, Manuale d’amore...)

Quando vi siete conosciuti, cinematograficamente parlando? Quando cioè avete preso coscienza l’uno dell’altra?

Valeria Solarino: Mi sono accorta di Vinicio in modo molto dirompente con Venti sigarette, lui è uno di quegli attori che riesce ad andare oltre la bidimensionalità dello schermo: ha vissuto il personaggio in maniera generosa. Mi sono abbandonata al suo personaggio e ho anche sofferto con lu.: come se fossi entrata nel film o lui ne fosse uscito.

Vinicio Marchioni: La prima impressione che ho avuto di Valeria è che mettesse del suo in tutti i personaggi che interpreta. Ci sono delle cose che ogni attore o attrice riescono a infilare in ogni ruolo che ricoprono. Ogni suo personaggio è filtrata da dolcezza, malinconia e fragilità.

Valeria, fino a che punto questa fragilità ti appartiene?

V.S.: La complessità che hanno sempre i personaggi che mi affidano è ciò che mi piace, rifiuto i personaggi piatti. Mi piace divertirmi con la drammaticità, scoprire o nascondere le caratteristiche di chi vado a interpretare. Ma io sono molto più allegra e molto meno complicata di queste mie persone filmiche. Un attore deve portare ciò che di se si addice al personaggio, ma mettere anche da parte ciò che non c’entra. Non penso che ci sia un metodo universale per recitare. I metodi sono tanti, tutti indirizzati ad arrivare alla credibilità di ciò che si racconta. Per Viola di mare ad esempio ciò che ho capito è che mi serviva partire da un atteggiamento fisico. Tutto è iniziato da una postura: sul set mi sono legata dei pesi alle caviglie e alle ginocchia per spostare il baricentro e la postura; pensavo che Angela fosse molto piantata a terra, perché abituata a camminare scalza e a vivere su un’isola selvaggia.

Come hai cominciato questo lavoro?

V.S.: Con la Scuola del teatro stabile di Torino nel 2000; ho fatto i provini mentre ero all’università e l’ho lasciata perché mi hanno presa. Studiavo Filosofia, e mi mancavano solo pochi esami. Ma è stato alla scuola torinese che ho veramente capito che volevo fare l’attrice: oltre la tecnica ho appreso l’amore per questo lavoro.

Vinicio, non possiamo certo parlare di fragilità per quanto riguarda i tuoi primi personaggi…

V.M.: Perché no, anche il Freddo ha una sua fragilità!

Cosa ti fa sentire più a tuo agio nella recitazione, la parola o la fisicità?

V.M.: Sono entrambe fondamentali. Alla scuola di teatro che ho fatto mi hanno insegnato che se non riesci a comunicare tutto con le parole non sei un buon attore. Con la parola non ero mai a mio agio perché avendo questo handicap (la balbuzie) ci ho dovuto combattere, ma poi si è trasformato in un’arma, perché ho studiato molto. Io studio anche le parti degli altri perché questo handicap mi da’ la possibilità di vedere se il ritmo di una scena è quello esatto: se mi impiccio sul set vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Sempre a proposito della parola, per me poi è molto difficile recitare in “italiano”, perché nessuno di noi in Italia parla in modo perfetto come ti insegnano a scuola di teatro. La recitazione fisica invece è più istintiva. Per fare il Freddo ad esempio immaginavo costantemente di essere in una specie di cabina e che le mie possibilità di movimento fossero limitate: lui è rigido, tutto dritto, tutto di un pezzo.

Perché fate gli attori?

V.S.: Non so perché faccio l’attrice e non voglio neanche saperlo, perché se poi scopro che è un motivo piccolo e banale smetto. Ma recitando riesco a vivere le emozioni pienamente, mentre nella vita non c’è mai modo di viverle appieno, per pudore o per tutta una serie di motivi e sovrastrutture date dalla famiglia, dalla società, dalla cultura eccetera. Recitando invece non devi provare pudore: puoi provare dolore e non vergognartene. E’ una scusa per vivere in maniera profonda le emozioni.

V.M.: Un milione di motivi. Ho fatto tantissimi di mestieri ma questo è quello che mi è rimasto fedele (o io a lui, questo lo devo ancora capire) . Penso che sia uno dei lavori più alti. Ho studiato la tragedia greca e mi fa piacere pensare che io sono uno di quelli che si stacca dai cori ed entra sulla scena… E poi la mia passione deve tanto ai film americani anni ’50, quelli si che erano bellissimi. Prima di fare l’attore ho fatto il cameriere, l’aiuto cuoco, ho gonfiato palloncini alle feste, sono stato garzone di bottega. Insomma come tutti gli attori agli inizi. Quando recitavo nei miei primi spettacoli mi alzavo alle quattro di mattina e andavo all’ufficio dove mia madre faceva le pulizie, così fotocopiavo i copioni mentre la aiutavo . Hai degli attori feticcio?

V.M.: Non ne ho, o meglio ce ne sarebbero tantissimi. E a quelli più famosi preferisco quelli che non vengono ricordati tanto spesso: a Gassman preferisco Tognazzi, a Mastroianni Manfredi…

Dopo il successo di Romanzo Criminale non hai temuto di rimanere intrappolato nel personaggio del Freddo? E come hai familiarizzato con un’epoca in cui non hai mai vissuto?

V.M.: Non mi sarei mai aspettato che questo ruolo riuscisse a entrare così tanto nell’immaginario della gente, ma non ho mai avuto paura che influenzasse la mia carriera professionale. Perché non può succedere ad un attore che sa fare il suo mestiere: basta saper dire di no, rifiutare i ruoli simili che ti vengono proposti. Io personalmente dopo Romanzo Criminale ho rifiutato un gran numero di proposte per telefilm polizieschi e quant’altro. E poi ho avuto la fortuna che dopo Romanzo Criminale mi è arrivata la richiesta di fare Venti sigarette. Negli anni Settanta ci sono entrato grazie alle fotografie di mio padre. Il Freddo ha un rapporto conflittuale con il padre, e da questa cosa sono partito per cercare di approfondirlo un po’. Così poi il padre si è trasformato nella figura nello Stato, del potere, ma anche nella figura di Francesco Montanari: il Libano.


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