Duplicity

Tony Gilroy è uno scrittore ‘bulimico’, un romanziere vecchio stampo per il grande schermo, capace di dar vita a imponenti edifici di parole, con una naturale inclinazione per il genere spy-action (i tre Bourne: Identity, Supremacy e Ultimatum, oppure Rapimento e riscatto), ma capace di ottime prove anche a confronto con il thriller (su tutti: L’ultima eclissi, tratto da King).
Dopo gli script per la trilogia di culto Bourne, questa sua propensione per gli intrecci spionistici si è tradotta nella regia di un esordio fortunato con Michael Clayton, cast di grandi attori arrivato ai premi Oscar. Ora, per l’opera seconda Gilroy fa inversione di marcia, o meglio mantiene il substrato dei suoi soggetti alterandone però completamente la natura, iniettando nel racconto di spionaggio solide dosi di commedia rosa.
Duplicity è, infatti, una commedia sofisticata spacciata – come i suoi protagonisti dalla doppia vita – per uno spy movie. I due agenti segreti abbandonano le rispettive missioni (per conto di Cia e Mi6) e il relativo amor patrio, per tentare un colpaccio da controspionaggio, truffando due multinazionali concorrenti per spassarsela in Europa, in pieno stile Vacanze Romane.
Una scelta spiazzante dopo le atmosfere cupe di Michael Clayton, pellicola anch’essa bizzarra, piena di andirivieni tra flashback e flashforward, non esplicitati da alcun segno di punteggiatura filmica, ma con un passato e un futuro immersi nella stessa atmosfera vacua, che finiva per costituire la cifra stilistica dell’opera e il suo miglior pregio, proprio perché in grado di raccontare l’apatia del nuovo millennio, in cui anche i cattivi, i villain di turno appaiono stanchi e demotivati, i nemici si fanno confusi – una qualunque anonima e insignificante multinazionale – e le azioni malvagie si stemperano in una sorta di resa morale che coinvolge tutti i protagonisti.
Da Michael Clayton Duplicity prende tutto e allo stesso tempo niente: tiene questi affaristi cattivi e li trasforma da entità astratte in macchiette ridicole; prende gli uomini di mezzo, quelli che “fanno le pulizie”, come dice Clooney nel primo film, per farne una coppia disfunzionale; prende gli opachi edifici delle multinazionali e li trasforma nel casinò che Danny Ocean ha deciso di sbancare.
Duplicity dimostra infatti tanti debiti cinefili – dal giallo/rosa di Hitchcock, alla commedia brillante – non sono forse i litigiosi colleghi Julia Roberts/Clive Owen una perfetta rivisitazione dei coniugi avvocati Katherine Hepburn/Spencer Tracy del cukoriano La costola di Adamo? – per finire con l’incursione del folletto maligno Soderbergh nel racconto di genere con la sua “Ocean Trilogy”. Quella di Gilroy, però, non possedendo la stessa scioltezza, finisce per essere piuttosto un film à la manière de che una rivisitazione originale. E non basta aver scelto Clive Owen al posto del più blasonato George Clooney per liberarsi dalla sensazione di déjà vu che attanaglia la pellicola dai primi frame.
Il film ha dalla sua una buona affinità tra i protagonisti e comprimari eccelsi come Wilkinson e Paul Giamatti – allo sbaraglio – ed è grazie alle loro performances che si riscontra quella piacevolezza tipica della commedia brillante svagata e citazionista. Il cambiamento di tono, però, non sembra giovare allo spessore della poetica di Gilroy, che regredisce qui al ruolo di regista ‘astuto’, intento a spiazzare le attese dello spettatore, disorientandolo con vari sottofinali e giochetti sporchi per quel che attiene alla ‘deontologia’ delle informazioni concesse allo spettatore, bluffando come l’Hitchcock di Paura in palcoscenico fece con il flashback del protagonista.
I troppi split screen che affollano lo schermo – diviso addirittura in quattro o sei parti – sono soluzioni rivelatrici di un’insicurezza registica che cerca di ovviare con il surplus a un testo di per sé non eccelso, ‘carino’, rassicurante ma in fin dei conti banale. Difetto comune alla prima parte di Michael Clayton e ai suoi misteriosi (più che altro inspiegabili) salti temporali, se non altro limitati da una pulizia e un rigore visivi in linea con la storia. In Duplicity questo elemento viene a mancare: nelle fredde inquadrature newyorkesi di Elswit non c’è traccia di quelle atmosfere gaie che la commedia dovrebbe possedere e che vengono ricercate nel dialogo e negli ammiccamenti della coppia.
Il film rimane sospeso – o perso? – tra la sua vocazione rosa e un sembiante troppo serioso, che il regista pare essersi portato in eredità dalla pellicola precedente. Il sorriso a mezza bocca, il disorientamento dello spettatore dopo la visione sembra indicare in primis quello dello stesso Gilroy, catapultato dal suo universo maschile fatto di spie, inseguimenti in auto e, in sostanza, di giochi per ragazzi, in un mondo dove l’unica a proprio agio è probabilmente Julia Roberts, intenta a spargere il luminoso sorriso, deliziosamente incurante delle incoerenze della trama.
(Duplicity); Regia e sceneggiatura : Tony Gilroy; fotografia : Robert Elswit; montaggio : John Gilroy; musica : James Newton Howard; interpreti : Clive Owen (Roy Koval), Julia Roberts (Claire Stenwick), Tom Wilkinson (Howard Tully), Paul Giamatti (Richard Garsik); produzione : Laura Bickford Productions, Universal Pictures; distribuzione : Universal Pictures;origine : Usa 2009; durata : 129’
