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Venezia 73 - E venne l’uomo. Un dialogo con Ermanno Olmi

Pubblicato il 9 settembre 2016 da Veronica Flora

VOTO:

Venezia 73 - E venne l'uomo. Un dialogo con Ermanno Olmi

Come dev’essere la poesia? La poesia deve essere onesta, diceva Umberto Saba. E l’onestà, come tratto inconfondibile di una weltanschauung umana prima ancora che cinematografica si addice a uno dei registi italiani che più di ogni altro, durante la sua lunga esperienza autoriale, si è dedicato, con rispetto sacrale, alla ricerca delicata e incessante della poesia presente, benché spesso nascosta, ovunque intorno a noi, e delle strade attraverso cui il mestiere del cinema può restituirne essenza e memoria.
Poeta del quotidiano, dei sentimenti ancestrali, dei movimenti basici, delle scelte cruciali nelle quali si riflette in maniera inequivocabile un senso di universalità della vita, il prodigio della natura, l’eco del dio delle piccole cose.
Un giovane Ermanno Olmi, dritto in piedi dentro un tram, visibilmente inorgoglito per la fresca vittoria del Premio della critica a Venezia per il suo film Il posto, racconta all’intervistatore, in un servizio televisivo di quasi 60 anni fa, l’emozione, l’entusiasmo di appartenere a quelle che vengono definite le file dei “nuovi registi”. Entusiasmo di esserci, di pensare, di amare, di partecipare, di progettare che, a 85 anni, l’autore de L’albero degli zoccoli, Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1978, conserva intatto e riesce a trasmettere, accogliendoci nella sua casa di Asiago ai bordi del bosco, nel corso dell’intervista con il critico cinematografico Federico Pontiggia, raccolta nel documentario E venne l’uomo – Un dialogo con Ermanno Olmi, realizzato da Alessandro Bignami per Rai Movie e presentato oggi alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, nella sezione VENEZIA CLASSICI.
La montagna, il bosco, la neve - che lo stesso Pontiggia attraversa per raggiungere la casa del regista, poi il set del suo ultimo film, una trincea d’alta quota alla fine della prima guerra mondiale - sono da sempre elementi ai quali Olmi torna, con la sete di un innamorato, per ricercare l’essenza più profonda della realtà e del suo cinema, espressioni di una natura che detta le regole e da quelle regole stesse è regolata.
Proprio sotto la coltre bianca e implacabile, ambientazione totale dell’opera liberamente tratta da La paura di Federico De Roberto, dormono i prati che, con la primavera, nonostante le atrocità concepite e perpetrate dall’uomo, torneranno a fiorire e a ospitare la vita. L’attenzione verso la natura e il rapporto con dio - rappresentato soprattutto da un “altro da sé” da amare, sottolinea il regista, evangelicamente più di se stessi - sono temi al centro dell’intero documentario. Nella prima parte si ricordano opere che più esplicitamente (“E venne un uomo” del 1965, su Papa Giovanni XXIII, e un recente progetto su Carlo Maria Martini) rimandano a una riflessione sulla Chiesa cattolica, nell’ambito dell’incessante ricerca sul senso della fede da parte del regista, che si definisce “un aspirante cristiano”.
Un’esperienza personalissima anche quella del confronto critico con le istituzioni religiose che, come nella metafora della chiesa svuotata da ogni paramento, che si apre all’accoglienza di un gruppo di extracomunitari africani senza permesso di soggiorno, del film Il villaggio di cartone del 2011, dovrebbero trasformarsi in uno spazio di vita e solidarietà per gli esclusi e gli emarginati della nostra società.
Sono molti e preziosi i materiali d’archivio selezionati: frammenti di film, dei numerosi documentari realizzati prima dell’approdo al cinema di finzione, tra cui La diga sul ghiacciaio del 1955, Tre fili fino a Milano del 1958 e Un metro è lungo cinque del 1961, caratterizzati da una particolare attenzione al rapporto fisico, materiale, prima ancora che spirituale, tra uomo, natura e macchine; e ancora interviste, scorci di vita di cinema, eloquenti momenti di backstage dei film, dalla ricerca degli interpreti, quasi sempre attori non professionisti, all’esperienza diretta di Olmi come operatore e montatore nonché improvvisato artigiano del cinema, affascinato conoscitore dell’universo dell’attrezzistica di scena appartenente a un modo di fare cinema che, in parte, non esiste più.
Al cinema di finzione Olmi arriva pieno della suggestione derivatagli dall’intensa esperienza documentaristica: all’indagine di matrice antropologica della realtà - tesa a evidenziare, attraverso l’osservazione di contesti di vita quotidiana e lavorativa (in particolare di cantiere e industriale), le naturali contraddizioni di un mondo che stava radicalmente cambiando - imprime uno sguardo lucido, denso di partecipazione e stupore, mai giudicante.
I primi film del regista - da Il tempo si è fermato del 1958, la storia dell’amicizia particolare tra uno studente universitario e il guardiano di una diga di montagna, a Il posto (1961) che narra le vicende di due giovani alle prese con il loro primo impiego, a I fidanzati (1963), scorcio del mondo operaio e della sua quotidianità - sono debitori dell’esperienza immersiva nel cinema del reale che Olmi ha vissuto negli anni precedenti. In particolare, Il posto, intessuto di una vena intimista che rivela intense influenze dalla nouvelle vague francese, è un delicato e preciso affresco di uno spaccato sociale e psicologico particolarmente emblematico dell’epoca. Ma quella volontà di ascoltare la realtà - fosse essa la verticalità imponente di una montagna, il caos di un caffè del centro, la danza del grano in un campo, gli sguardi di due innamorati - in “religioso” silenzio, un silenzio che unisce insieme, lo accompagnerà per tutta la sua carriera.
E’ l’amicizia, dice Olmi, quella vera, presente o passata, quella che dura per sempre, a procurargli oggi un senso di felicità. Non ci è dato sapere se fosse un vero amico o solo uno stimato collega, ma tra i ricordi del regista bergamasco, ce n’è uno affettuoso e pieno di ammirazione legato a Fellini. Il significativo aneddoto legato a “Federicone il bugiardo” nell’ultimo periodo della sua vita, e che ben sintetizza il paradosso delle difficoltà che il grande regista ebbe a portare avanti gli ultimi progetti, suona come un severo rimprovero a un atteggiamento di superficialità tutto italiano, e come un monito a non lasciare, oggi più che mai, che interessi economici sempre più pressanti (la “legge dei mercanti”, la definisce Olmi) travolgano e seppelliscano per sempre la possibilità di esistere dell’incanto dell’arte. Cosa daremmo oggi per poter avere anche il più piccolo, irrilevante frammento di un progetto di Fellini!?
A partire da questa amara riflessione, sembra farsi sempre più flebile l’eco di quella speranza, legata strettamente all’ineludibilità delle leggi di natura, che ha attraversato sempre e comunque la voce del regista e il racconto delle piccole e grandi trasformazioni, più o meno dolorose, più o meno drammatiche, vissute dagli personaggi umanissimi dei suoi film.
E quando, alle battute finali dell’intervista, richiama alla mente la follia della guerra, evocata in Torneranno i prati, qualunque forma e qualunque mandante essa abbia, Olmi non può non ribadire ancora e sempre l’interiorizzato ammonimento di Camus: “Se vuoi che un pensiero cambi il mondo, prima devi cambiare te stesso”.


CAST & CREDITS

(E venne l’uomo – Un dialogo con Ermanno Olmi); Regia: Federico Pontiggia e Alessandro Bignami; Produzione: Raimovie; origine: Italia, 2016; durata: 50’


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